Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2023-2024
“LA VITA È SOGNO”
Opera in tre atti e quattro quadri dal dramma “La vida es sueño” di Pedro Calderón de la Barca
Musica e libretto di Gian Francesco Malipiero
Il re RICCARDO ZANELLATO
Il principe LEONARDO CORTELLAZZI
Estrelle FRANCESCA GERBASI
Don Arias / Uno della folla LEVENT BAKIRCI
Clotaldo SIMONE ALBERGHINI
Diana VERONICA SIMEONI
Servo di Diana / Uno scudiero del re ENRICO DI GERONIMO
Mimi FRANCESCO NAPOLI, GIUSEPPE SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Elena Cicorella
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 31 ottobre 2024
Novello Edipo, anche il protagonista de La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero (Il Principe) viene rifiutato, appena venuto al mondo, dal padre (Il Re). Questi – allarmato da funesti presagi, manifestatisi alla nascita del figlio e confermati dal responso degli astri, che vedono in lui un futuro tiranno – lo fa rinchiudere in una torre, dove vive da recluso. Ma, dopo vari anni, roso dal rimorso, il re ordina di liberare il giovane e di condurlo – narcotizzato – a palazzo, dove la vita da principe gli sembrerà un sogno: lo scopo è quello di verificare la vera indole del suo possibile successore. Il quale, appena appresa la verità, predice, infuriato, che il padre tra breve cadrà ai suoi piedi. Il re, convinto dell’ineluttabilità del destino, fa riportare il figlio – dormiente – nella torre, in modo che quella parentesi di libertà gli sembri nient’altro che un sogno. Ma, di fronte alle grida della folla – che, incurante dei presagi, reclama il suo principe – padre e figlio si abbracciano, tra l’esultanza del popolo. Questa, in sintesi, la vicenda drammatica, su cui si regge l’opera, tratta dalla celebre tragedia di Calderón de la Barca – composta da un Malipiero quasi sessantenne –, ora riproposta al Teatro Malibran, ad ottant’anni dalla prima italiana, avvenuta, nel 1944 al Teatro La Fenice, un anno dopo il suo debutto all’Opera di Breslau (oggi Wrocław), allora parte del Terzo Reich. Il regista Valentino Villa pone l’accento sulla semplificazione della linea narrativa operata dal compositore veneziano, che non si limita a ridurre la tragedia calderoniana, bensì evidenzia il lato archetipico delle vicende narrate, sottraendole ad una specifica collocazione spazio-temporale, ad esempio con l’assegnare ai personaggi un nome generico (Il Re, Il Principe) o un nome diverso rispetto all’originale (Diana anziché Rosaura). Quanto alla messinscena di quest’opera che, dopo ottant’anni dal suo debutto, risulta ai più sostanzialmente sconosciuta, il regista romano ha ritenuto opportuno non intromettersi più di tanto nel rapporto tra il pubblico e un titolo tutto da scoprire, usando un tratto leggero, non invasivo, ideando uno spettacolo che si possa riconoscere come coerente rispetto al barocco di Calderón. Nel contempo, di fronte alla didascalia iniziale del libretto, “Senza luogo né tempo in un mondo di fantasia”, ha preferito collocare la vicenda in un’epoca storica “astratta”, rientrando nella logica del sogno. Quello che ha immaginato insieme a Massimo Checchetto è un apparato scenografico essenziale, basato su due superfici cilindriche rotanti che permettono il succedersi di vari quadri, assecondando la concezione drammaturgica “a pannelli” di Malipiero. Quanto ai luoghi, fondamentale è la torre con funzione di carcere. Peraltro la reclusione – nella visione di Valentino Villa – non opprime solo il Principe, ma anche il Re fortemente condizionato dalle stelle e dalle profezie. All’astrologia praticata da lui rimanda il sestante (uno strumento, che misura l’angolo di elevazione di un corpo celeste sopra l’orizzonte), citato nell’apparato scenico, mentre all’Uomo Vitruviano sembra ricollegarsi l’idea di far apparire sulla scena il Principe legato – mani e piedi – ad un cerchio, sovrapposto a un quadrato, uno dei simboli del Rinascimento. Elementi scenografici, che simboleggiano il falso scientismo del Padre, cui si contrappone la rivoluzione culturale, rappresentata dal Principe. La conciliazione avviene nel finale, dove si impone una concezione culturale più evoluta. Meno astratti rispetto alla scenografia gli eleganti costumi di Elena Cicorella, che si richiamano ad un Seicento, che – pur nella sua vaghezza – spazia dalla Spagna ai Fiamminghi. Di ispirazione caravaggesca l’efficace disegno delle luci di Fabio Barettin. Nessun “cerebralismo” – termine talora usato da alcuni per definire la musica di Malipiero – coglie nella partitura Francesco Lanzillotta, il cui gesto direttoriale è teso a valorizzare la vena melodica – emancipata rispetto alla tradizione ottocentesca –, che si stempera nel continuo declamato delle voci, oltre alla raffinata sensibilità strumentale dell’autore, che considera l’orchestra come la somma di tanti ensemble cameristici, mettendo in luce il timbro dei singoli strumenti o delle singole sezioni. Ineccepibile il rapporto tra buca e palcoscenico, dove si è esibito un cast di prim’ordine, a cominciare dal tenore Leonardo Cortellazzi, capace di delineare, con generosa passione, il carattere del “sognante” principe – che nella rivisitazione malipieriana assume maggiore rilievo rispetto al testo di Calderón – combattuto tra afflizione e furore vendicativo, segnalandosi per il timbro brillante ed omogeneo. Analogamente espressiva è risultata Veronica Simeoni, che ha prestato la sua perlacea vocalità mezzosopranile, per regalarci un personaggio – Diana –, particolarmente affascinante per la sua varietà di accenti: dallo sconforto alla pietà. Di encomiabile professionalità il baritono Simone Alberghini e il basso Riccardo Zanellato, nei panni rispettivamente di Clotaldo e del Re, oltre al soprano Francesca Gerbasi (Estrella) e ai baritoni Levent Bakirci (Don Arias/Uno della folla) ed Enrico di Geronimo (Servo di Diana/Uno scudiero del re). Una menzione particolare merita il Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani, che ha brillato per sensibilità e fraseggio nei tre madrigali che vengono intonati al risveglio del Principe a corte e in apertura dell’ultimo atto, omaggio alla grande tradizione polifonica monteverdiana. Successo pieno e caloroso con numerose chiamate.