Roma, Teatro Vascello : “La Scortecata”

Roma, Teatro Vascello
LA SCORTECATA

liberamente tratto da Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile 

testo e regia Emma Dante 
con Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
elementi scenici e costumi Emma Dante 
luci Cristian Zucaro
produzione Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, e Carnezzeria.
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone
Roma, 20 Novembre 2024
“Ahi, sfortunata vecchiaia, quanto sei schernita e ingannata, non tanto dagli altri quanto da te stessa!”
Emma Dante, con La Scortecata, affronta l’arduo compito di trasporre per la scena una delle fiabe di Giambattista Basile, tratte dalla celeberrima raccolta Lo cunto de li cunti. Questa operazione, che di per sé potrebbe apparire come un mero esercizio filologico, si trasforma invece in un profondo studio sulla natura del linguaggio, della teatralità e della condizione umana. la regista non si limita a rievocare le radici dialettali e popolari del testo: ella compie un atto di riscrittura che restituisce modernità senza sradicare la fiaba dalla sua matrice barocca. Il dialetto napoletano di Basile, ricco di proverbi e lazzi, si riflette nella partitura drammatica con una cadenza ritmica che non tradisce mai l’oralità del testo originario, offrendo una densità semiotica che sollecita la partecipazione attiva del pubblico. La vicenda narrata è quella del decimo trattenimento della iornata primma del Pentamerone: due sorelle anziane, Rusinella e Carolina, vivono miseramente in una catapecchia finché la voce di una di loro non seduce un re che, ingannato dall’apparenza di un dito giovanile, la porta nel proprio letto. L’esito è grottesco: la vecchia, scoperta, viene gettata dalla finestra, ma salvata da una fata che la trasforma in una bellissima giovane. La morale della fiaba, con la seconda sorella che, cercando di imitarla, finisce scorticata, non si riduce a una semplice denuncia della vanità femminile. La regista ne fa un’indagine antropologica sulla solitudine, sull’inganno e sull’ossessione per un ideale di bellezza che trascende epoche e culture. L’analisi psicologica si fa tagliente, esaminando le ambiguità umane con un tono disincantato, quasi cinico, ma capace di far emergere la profondità dell’animo. Il cuore dell’opera non è solo la narrazione di una fiaba, ma un’esplorazione del senso esperienziale della storia stessa. Le due sorelle anziane rappresentano la disperazione umana nel tentativo di sfuggire alla propria condizione. L’illusione della bellezza, l’inganno che perpetuano su loro stesse e sugli altri, è simbolo di un desiderio universale: il bisogno di trasformazione, di redenzione dalla miseria quotidiana. Tuttavia, la trasformazione fisica non equivale mai a una metamorfosi interiore. Questo divario crea una tensione che risuona fortemente con il pubblico, suggerendo una riflessione filosofica sul rapporto tra l’essenza e l’apparenza, sul valore effimero dell’estetica rispetto alla sostanza dell’essere. La regista sembra quasi suggerire che la ricerca della bellezza, come forma di riscatto, sia un inganno crudele e, al contempo, un impulso inevitabile della natura umana ed allo stesso tempo imprime al suo lavoro la consueta capacità di trasformare il minimalismo scenico in un universo simbolico. La scena, affidata alla stessa la regista, è spoglia: due sedie, una porta e un castello in miniatura bastano a delineare spazi fisici e mentali. La catapecchia delle due sorelle diviene metafora di un’esistenza ridotta all’essenziale, mentre il castello in miniatura rappresenta un’illusione di grandezza, una trappola per sogni irrealizzabili. la regista crea una drammaturgia che non cerca di stupire con effetti visivi, ma che indaga l’essenza stessa della teatralità, esprimendo il contrasto tra l’illusione scenica e la realtà psicologica dei personaggi. L’ironia è palpabile: il castello in miniatura, con la sua pretesa di grandezza, è un’ironica metafora delle ambizioni che ci fanno inciampare. Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola offrono una prova attoriale che trascende la semplice interpretazione di un ruolo. Essi diventano corpi narranti, capaci di trasmettere la comicità farsesca e, al contempo, il dramma esistenziale. Le loro voci modulano il dialetto, facendolo oscillare tra il lirico e il grottesco, mentre i gesti amplificano la condizione deformata delle due anziane. la regista sembra voler mostrare il grottesco come elemento inevitabile della condizione umana, dando voce ai desideri più intimi e contraddittori. Gli attori si fanno autori di un linguaggio scenico che vibra di autenticità, con una sottile ironia che rivela la tragica comicità delle loro esistenze. Le luci di Cristian Zucaro disegnano i contorni di una scena che vive di chiaroscuri barocchi. Il buio diviene un elemento narrativo, uno spazio in cui i corpi degli attori emergono come reliquie, fantasmi che vivono una condizione sospesa tra il reale e il fiabesco. La scena non è mai completamente illuminata, riflettendo la dicotomia tra il sogno di bellezza e l’inesorabile decadenza. Questo gioco di luce e ombra suggerisce una ricerca della verità che è sempre parziale, un percorso che si snoda tra luci e tenebre, senza mai svelarsi interamente. L’ironia cinica di la regista si manifesta anche qui: la bellezza resta sempre nel mezzo, irraggiungibile, come un gioco crudele del destino. La Scortecata non si limita a raccontare una fiaba. La regista utilizza la struttura fiabesca come pretesto per un’indagine sul teatro stesso, inteso come luogo di trasformazione e illusione. L’operazione metateatrale è esplicita: i due attori non si limitano a interpretare, ma “inscenano” continuamente, rompendo la quarta parete con complicità e ironia. la regista vede la scena come un luogo in cui il reale e l’immaginario si incontrano, e il pubblico è chiamato a partecipare non solo emotivamente, ma anche intellettualmente, cogliendo i riferimenti e le implicazioni di un testo che riflette sull’inganno come fondamento della rappresentazione scenica. Con La Scortecata, La regista consegna al teatro contemporaneo un’opera che si muove su un crinale pericoloso ma estremamente affascinante: quello tra tradizione e innovazione, tra barocco e minimalismo, tra il comico e il tragico. Lo spettacolo si pone come un’operazione colta, raffinata e al contempo visceralmente teatrale, che riesce a rendere una fiaba secentesca specchio inquietante della modernità. la regista dimostra che il teatro può essere un luogo di dialogo tra il passato e il presente, tra il vero e l’illusione, capace di esplorare le profondità dell’animo umano con uno sguardo acuto, disincantato e, perché no, beffardo.