Roma, Teatro Sala Umberto
VORREI UNA VOCE
con le canzoni di Mina
ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare di D’aRteventi
diretto da Daniela Ursino
disegno luci Luigi Biondi
costumi Aurora Damanti
regista assistente Alessandro Bandini
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Proxima Res
partner di produzione Gruppo Ospedaliero Moncucco
di e con Tindaro Granata
Roma, 12 novembre 2024
“E improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto.” MINA
“Vorrei una voce”, scritto e interpretato da Tindaro Granata, si configura come un’esperienza scenica di intensa delicatezza, dove la teatralità si fonde con il racconto umano per dare voce a chi vive ai margini. Lo spettacolo nasce dall’incontro dell’autore con le detenute-attrici del Teatro Piccolo Shakespeare, attivo nella Casa Circondariale di Messina, nell’ambito del progetto “Il Teatro per Sognare”, promosso da D’aRteventi sotto la direzione artistica di Daniela Ursino. In questo contesto, le canzoni di Mina si ergono a simbolo di un linguaggio universale capace di tradurre l’indicibile e di restituire frammenti di un’identità altrimenti sepolta. La produzione, affidata alla cura del LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con Proxima Res e sostenuta dal Gruppo Ospedaliero Moncucco, si avvale di un impianto scenico sobrio ma altamente evocativo. I costumi di Aurora Damanti delineano, con grazia sottile, un’umanità ricca di sfumature, mentre il disegno luci di Luigi Biondi modula spazi e stati d’animo, accompagnando lo spettatore in un viaggio emotivo che dal buio dell’isolamento conduce verso una tenue luminosità di speranza. Il lavoro di regia garantisce equilibrio tra la dimensione narrativa e quella visiva, permettendo al testo di fiorire in tutta la sua potenza comunicativa. La scelta drammaturgica di Granata, che utilizza il playback delle canzoni di Mina, si rivela una soluzione di rara forza espressiva. Le labbra che si muovono senza produrre suono amplificano il senso di una voce negata, spezzata dall’assenza di libertà. Ma al contempo, il canto che affiora da questa evocazione genera un cortocircuito emotivo, dove la musica diventa veicolo di resistenza, riscatto e trasformazione. Ogni nota sembra cucire, nel tessuto drammatico, le storie delle detenute, che emergono come tessere di un mosaico fatto di perdite, ricordi e sogni infranti. L’atmosfera scenica è un intreccio sapiente di malinconia e lirismo. Il palco spoglio, quasi ascetico, si trasforma in uno spazio immaginifico dove le luci e i movimenti di Granata costruiscono mondi invisibili, sospesi tra la memoria e il desiderio di un altrove. L’eco dell’ultimo concerto di Mina alla Bussola nel 1978, evocato nello spettacolo, non si limita a una rievocazione nostalgica, ma diventa simbolo di una femminilità perduta e ritrovata, un filo rosso che unisce le protagoniste delle storie al pubblico in un patto di comprensione e complicità. Granata, con un’interpretazione misurata e intensissima, si pone al centro di un rito collettivo di riconciliazione con l’umanità ferita. Non è solo narratore, ma diviene essenza incarnata di quelle voci, prestando loro il proprio corpo e la propria anima, restituendone la dignità con una sensibilità che sfiora il sublime poetico. Ogni gesto è ponderato, ogni pausa si carica di una tensione che sa sfidare il silenzio, ogni melodia s’insinua negli anfratti più profondi dell’animo dello spettatore, trasformando l’ascolto in un’esperienza viscerale. Con rara audacia, l’attore si spoglia delle convenzioni per raccontare di sé, delle proprie prigioni interiori. Granata non teme di rivelarsi carcerato e carcerata, un’identità molteplice e stratificata che si intreccia a quella delle vite narrate, trovando accoglienza e amore in un microcosmo parallelo, dove diviene, a sua volta, una donna tra le donne. È proprio in questa fusione che si compie la magia del teatro, quel luogo che consente di tradurre il dolore individuale in un canto universale, in cui il pubblico è chiamato a rispecchiarsi e a farsi partecipe. “Vorrei una voce” non è semplicemente un’opera teatrale, ma una vera e propria liturgia dell’umano, uno spettacolo che abbraccia chi assiste, trasportandolo in una dimensione altra, dove l’empatia si erge come strumento per scardinare le barriere del pregiudizio. E così che il suo protagonista, nel suo atto performativo, rinnova il senso più alto del teatro, rivelandone il potere catartico e sociale. È un canto sospeso nel tempo e nello spazio, un invito a volgere lo sguardo oltre le sbarre dell’esclusione, là dove, contro ogni aspettativa, si cela un frammento di bellezza inesprimibile.