Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
MANON LESCAUT (altro cast)
Dramma lirico in quattro atti, dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Giacomo Puccini
Manon Lescaut MARIA TERESA LEVA
Renato Des Grieux CARLO VENTRE
Lescaut ALESSANDRO LUONGO
Geronte di Ravoir CARLO LEPORE
Edmondo GIUSEPPE INFANTINO
Il maestro di ballo / Un lampionaio DIDIER PIERI
Un musico REUT VENTORERO
Sergente degli arcieri e L’oste JANUSZ NOSEK
Il comandante di marina LORENZO BATTAGION
Madrigalisti PIERINA TRIVERO, MANUELA GIACOMINI, GIULIA MEDICINA, DANIELA VALDENASSI
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard con la collaborazione di Marina Bianchi
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Movimenti coreografici Tiziana Colombo
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 3 ottobre 2024
Se un teatro vuol fare, visto il centenario, un quasi tutto Puccini si trova inevitabilmente ad affrontare il duro scoglio della Manon Lescaut per cui, di questi tempi, è assai arduo trovare in campo voci adeguate. Al Regio di Torino le recite si susseguono infatti con protagonisti, pur intelligenti e di buona volontà, ma assai lontani da potersi considerare ideali. Erika Grimaldi sale sul palco come Manon per ben sette delle otto recite in cartellone, viene rilevata per una sola data, la nostra del 3 ottobre, da Maria Teresa Leva. Anche per il Cavaliere Des Grieux il cartellone originario prevedeva delle alternanze che nei fatti non si stanno verificando. Pare infatti che ad Aronica, titolare sulla carta di gran parte delle date, sia rimasta la sola recita d’apertura per poi passare a Carlo Ventre le due successive. Per il proseguo, il sito del teatro è reticente e al pubblico non rimarrà che l’emozione di scoprirlo, volta per volta, sul manifesto esposto nei pressi dell’ingresso in sala. Sono queste incertezze la testimonianza esplicita delle difficoltà odierne a trovare interpreti adatti e all’altezza delle difficoltà psicologiche e tecniche dei protagonisti di quest’opera. Siamo al 3 di ottobre e Maria Teresa Leva vince la sfida con un timbro affascinante, un legato ben strutturato e l’accortezza di offrire una vocalità mai forzata. Psicologicamente incerta tra l’essere la fatua e leggera ragazzetta dei primi due atti e mostrare una natura tragica e disperata nel prosieguo, sceglie la strada mediana di comparire come fanciulla debole più vittima di stupri che artefice di seduzioni. La sua prestazione viene fortemente penalizzata da “agenti esterni” quali il clangore orchestrale che, nell’atto iniziale, unito allo scorrazzare del coro, le erge una barriera difficoltosa da superare; la regia poi le rapina, con una troppo invasiva proiezione di un film, la primazia del “sola perduta abbandonata”. La povera Manon, relegata a figurina marginale, sotto uno schermo immenso di proiezione, viene fagocitata dal giganteggiare dei due bellissimi e giovani protagonisti del film. Immagini distopiche sovrappongono a lei, cantante ancora in vita, un enorme Des Grieux che, fuori di senno con gli occhi spiritati, la ricopre, ormai morta e composta nella fossa, con la sabbia del deserto, tra ritti cactus. Chiudendo gli occhi, ascoltando senza guardare, la prestazione della Leva si coglie emozionata ed emozionante, tale a quelle che, in molti finali di Bohème, ti serrano la gola. Unico applauso a scena aperta della serata, seppur acceso da un “brava!” solitario lanciato dalla platea, dopo l’apprezzabile esecuzione delle “trine morbide”. Il Des Grieux di Carlo Ventre che risente indubbiamente dei tanti anni di carriera e dei tanti palcoscenici calpestati, ripropone, con qualche limite, ruvide baldanze giovanili. La voce del tenore, benché sfondi abbastanza gagliardamente il muro dell’orchestra, trova qualche difficoltà a galvanizzare il pubblico torinese tradizionalmente troppo compassato e restio agli omaggi. Ventre ha, con dignità e mestiere, costruito un personaggio irruente e a tutto tondo e, pur se i centri paiono un poco soffocati, gli acuti sfoggiano uno squillo che ricupera, almeno in parte, passati splendori. L’amante appassionato confligge con l’aitante giovinetto che compare sull’implacabile schermo che incombe alle sue spalle. Applausi contenuti al “Donna non vidi mai”, peraltro frenati da una regia che nasconde il protagonista tra una folla eccessivamente caotica che ne impedisce l’identificazione. Anche il “non v’avvicinate … pazzo son”, subito stoppato da un’orchestra frettolosa, se ne va senza lasciar tracce. I duetti, dei due protagonisti, del primo e del secondo atto soffrono dell’eccessiva disparità, in volume di suono ed in intenzioni psicologiche, delle due voci. Il resto della compagnia, invariata per tutte le recite, s’è fatto valere senza cedimenti. Alessandro Luongo come Lescaut e Carlo Lepore come Geronte si sono mostrati affidabili e sicuri coprotagonisti. Renato Palumbo e L’Orchestra del Teatro Regio, a tratti sopra le righe per il volume del suono, hanno con sensibilità sostenuto un palcoscenico a tratti eccessivamente messo a disagio da una regia che poco si è curata delle precipue esigenze di una rappresentazione operistica. Il Coro del Teatro Regio che si suole incondizionatamente lodare, ha passato dei difficili momenti quando, nel primo atto, accalcato e appesantito dal confuso andirivieni, ha pure dovuto cercare l’accordo negli attacchi, impresa portata con fatica a buon fine grazie alle numerose coincidenze ritmiche in fortissimo. Da ultimo: l’accordo tra cinema e opera non è riuscito al meglio. La troppo scontata sequela di cinematografici baci appassionati, proiettata nel corso dell’intermezzo, e gli interminabili 4 minuti di navigli squassati dalle onde oceaniche in burrasca, pausa introduttiva all’ultimo atto, possono anche aver avuto un loro perché. La sovrapposizione filmica, all’intero quarto atto, con prima Des Grieux che pedina Manon fin all’interno di una casa d’appuntamenti, seguita dalla morte di Manon nel deserto che nei fatti oblitera il canto del soprano morente, ci paiono sbagliati ed inaccettabili. Pubblico contenuto che comunque, senza eccessivi entusiasmi, applaude. Foto Simone Borrasi