Roma, Teatro Argentina
HOUSE
scritto e diretto da Amos Gitaï
con Bahira Ablassi, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Minas Qarawany, Atallah Tannous, Richard Wilberforce
Prima Nazionale
“Le case sono come le persone, contengono le storie di chi le ha abitate e portano le cicatrici dei loro conflitti.” – Amos Gitai
Roma, 09 Ottobre 2024
La nuova opera teatrale di Amos Gitai, “House”, presentata in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival, si propone come un punto di riflessione su temi universali di divisione, memoria e riconciliazione. Ispirata alla trilogia documentaristica del regista – La Maison (1980), Une maison à Jérusalem (1997) e News from Home/News from House (2005) – “House” racconta un quarto di secolo della storia di una casa in Gerusalemme Ovest, testimone silenziosa dei conflitti tra arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani. La narrazione, sviluppata attraverso una sceneggiatura complessa e stratificata, non si limita alla descrizione delle vicende personali degli abitanti della casa, ma diventa una riflessione profonda sul concetto di “abitare“, inteso come la convivenza in uno spazio condiviso, carico di tensioni storiche e culturali. La casa diventa metafora di una società lacerata, in cui divisioni etniche, religiose e politiche si intrecciano con le dinamiche della vita quotidiana. Gitai usa la casa come un microcosmo, specchio delle divisioni globali, e invita lo spettatore a riflettere su come le barriere fisiche e mentali possano essere superate solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca. Il cast, composto da attori di fama internazionale come Irène Jacob, Bahira Ablassi e Micha Lescot, offre una recitazione intima e aperta, mai soffocata o sopra le righe. La loro performance è un delicato equilibrio tra emozioni profonde e la sobrietà che richiede il contesto della narrazione. Jacob, già musa del regista polacco Krzysztof Kieślowski, porta in scena un’interpretazione che risuona di vulnerabilità e speranza. Il suo personaggio riflette la difficoltà di vivere in un contesto di divisione, ma allo stesso tempo incarna il desiderio di riconciliazione. Gli attori recitano in inglese, arabo, francese, ebraico e yiddish, con sottotitoli in italiano. Questo multilinguismo diventa un potente strumento simbolico: ogni lingua rappresenta una storia, un’identità culturale diversa, ma tutte si incontrano in questo spazio comune, dove i confini tra il personale e il politico si confondono. La regia di Gitai, che consente agli attori di esplorare in profondità i propri personaggi, rispetta i silenzi, i gesti e le pause, lasciando che le emozioni emergano senza forzature. La narrazione si dipana in modo naturale, senza mai sovraccaricare lo spettatore con eccessi drammatici, ma piuttosto accompagnandolo in un percorso di riflessione silenziosa. La scenografia minimalista contribuisce a creare uno spazio sospeso, in cui la casa diventa non solo un luogo fisico, ma anche simbolico. Le pareti della casa, spoglie ma cariche di storia, suggeriscono che le vicende dei personaggi che vi hanno vissuto continuano a risuonare, come se la memoria di quelle vite si fosse incisa nelle pietre stesse. La regia di Gitai lascia spazio ai personaggi e agli spettatori di abitare insieme questo luogo sospeso tra passato e presente. Il tempo è un altro elemento chiave dell’opera: Gitai gioca con le linee temporali, facendo sì che passato e presente si sovrappongano. I personaggi, con i loro ricordi e le loro storie, diventano rappresentazioni viventi di un tempo che non è lineare, ma circolare. Questa scelta registica rafforza il senso di continuità della memoria, dove ogni evento presente è inevitabilmente legato a quelli del passato. Un altro elemento di grande potenza simbolica è la musica. La colonna sonora, curata da Richard Wilberforce, e impreziosita dal suono del santur iraniano suonato da Kioomars Musayyebi, aggiunge una dimensione emotiva che eleva ulteriormente l’atmosfera dello spettacolo. Il santur, con le sue note delicate e malinconiche, accompagna i momenti più toccanti della narrazione, evocando una nostalgia per un tempo e un luogo che sembrano sfuggire, ma che continuano a vivere nella memoria collettiva. La musica diventa un linguaggio universale, capace di oltrepassare le barriere linguistiche e culturali che caratterizzano la narrazione verbale. Mentre le lingue parlate possono dividere i personaggi, la musica li unisce, creando un ponte tra le loro storie e identità. Questo dialogo musicale diventa una sorta di “terreno comune” dove le differenze possono essere accettate e celebrate. Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, ancora irrisolto e in continua evoluzione, “House” assume una risonanza particolare. L’opera non è solo una narrazione storica o personale, ma un commento implicito sulla situazione politica attuale. Le tensioni che attraversano Gerusalemme, e il Medio Oriente in generale, si riflettono nelle dinamiche tra i personaggi, che lottano per trovare un equilibrio tra la loro identità e la necessità di coesistere. In un mondo in cui il dialogo tra popoli sembra sempre più difficile, Gitai ci ricorda, attraverso la sua opera, che l’arte può essere uno spazio di riconciliazione, dove le differenze non sono motivo di conflitto, ma una risorsa per comprendere l’altro. “House” diventa così non solo un’opera teatrale, ma un atto di resistenza culturale, un invito a non dimenticare che la memoria del passato non deve essere un ostacolo alla pace, ma una base su cui costruire il futuro. Con la sua delicatezza e intensità si rivela un’opera profonda e universale, che tocca il cuore dello spettatore, invitandolo a riflettere non solo sulle divisioni del passato, ma anche sulle possibilità di un futuro condiviso. Photocredit@Simon-Gosselin