Pavia, Teatro “Fraschini”: “La Bohème”

Pavia, Teatro Fraschini, Stagione 2024/25
“LA BOHÈME”
Opera lirica in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di
Giacomo Puccini
Mimì MARIA NOVELLA MALFATTI
Musetta FAN ZHOU
Rodolfo VINCENZO SPINELLI
Marcello JUNHYEOK PARK
Schaunard DAVIDE PERONI
Colline GABRIELE VALSECCHI
Benoît/Alcindoro ALFONSO CIULLA
Parpignol ERMES NIZZARDO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro di OperaLombardia
Coro delle Voci Bianche del Teatro Sociale di Como
Direttore
Riccardo Bisatti
Maestro del Coro e del Coro delle Voci Bianche
Massimo Fiocchi Malaspina
Regia e costumi
Marialuisa Bafunno
Scene
Eleonora Peronetti
Coreografie
Emanuele Rosa
Luci
Gianni Bertoli
Nuovo allestimento in coproduzione Teatri di OperaLombardia, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Pavia, 20 ottobre 2024
La stagione di OperaLombardia 2024/25 non poteva aprirsi che con un’opera di Puccini, visto il centenario in corso: la scelta è caduta su un grande classico, “La Bohème“, per la messa in scena del quale si è ricorsi a una selezione tra progetti under 35, e probabilmente qui risiede l’origine dei limiti di questa stessa produzione. È chiaro, infatti, che questa “Bohème“ presenti alcuni problemi strutturali; il primo di essi è proprio quel tipo di regia che siamo soliti definire “delle trovate“, cioè una sequela di situazioni e siparietti di per sé non legati a un chiaro progetto generale, né necessari a una migliore ricezione dell’opera. Si è voluta mettere in scena una “Bohème“ contemporanea, e per questo si è pensato di trasformare Colline in un militante ambientalista, Schaunard in un performer omosessuale, Marcello in un creatore di urban stencil, e Rodolfo? Non si capisce, giacché i fogli del dramma iniziale che brucerà piovono dal cielo, e quando all’inizio del quarto quadro dovrebbe scrivere, in realtà raccoglie spazzatura, così noi non vediamo mai il giovane scrittore, ma solo uno che vivacchia in una soffitta con i suoi amici; questa scelta sarebbe interessante qualora la regia avesse voluto indagare i simboli del contemporaneo portando in scena i loro significati, invece Marialuisa Bafunno preferisce lasciare tutto in superficie, un po’ come la scelta di porre all’inizio e durante tutto il dramma il personaggio del vecchio Rodolfo che ricorda la vicenda (perché, se poi non interviene, non scrive, non apporta nulla all’opera?), o quella di trasformare il momento del Tamburo maggiore in una coreografia di gruppo stile TikTok, senza una ragione, senza un legame col resto, solo per perseguire un’estetica – che, peraltro, nemmeno appaga lo sguardo, poiché se le scene di Eleonora Peronetti sono perlomeno interessanti nella costruzione degli spazi, i costumi della stessa Bafunno sono alquanto banali, un po’ anni 90, un po’ anni 70, con un abuso evidente di paillettes e, anch’essi, senza alcuna visione d’insieme. Eppure, la parte peggiore di questa produzione non è la regia in quanto tale, che presenta perlomeno nel lavoro sui personaggi e i cantanti alcune scenette anche godibili (soprattutto grazie alle coreografie di Emanuele Rosa nel secondo atto), ma il disegno delle luci, a cura di Gianni Bertoli: alla ricerca di effetti arditi, suggestioni interiori e forse innovazioni, le luci sono perlopiù date a caso, lasciando spesso i cantanti in piena ombra nel cantare i loro pezzi iconici, mentre inquadrano angoli vuoti, parti del coro inattive in quel momento, altri interpreti che stanno in silenzio (ci riferiamo perlomeno alla romanza di Mimì del primo quadro, al valzer di Musetta del secondo, al duetto del terzo): questa “sperimentazione“ ci è parsa incomprensibile, oltre che irrispettosa sia del pubblico che dell’artista in scena. Per fortuna, l’apparato musicale ci ha regalato performance complessivamente positive, a cominciare dalla direzione di Riccardo Bisatti che ha saputo in tutti i momenti dell’opera, anche i più complessi, mantenere una bella armonia tra cavea e scena, oltreché mettere in luce con prudenza tutti i leitmotiv presenti, rendendo giustizia alla partitura con una concertazione partecipe sul piano espressivo. Vincenzo Spinelli è un Rodolfo corretto, forse un po’  leggero, ma almeno ci è parso sicuro nell’intonazione e nel registro acuto e con un fraseggio particolarmente efficace nei passi più squisitamente sentimentali; accanto a lui brilla  Maria Novella Malfatti, soprano lirico pieno, dalla vocalità ben proiettata, con suoni tondi e piacevolmente pastosi; unico aspetto non del tutto convincente della sua prova, la cantante ci è parsa un po’ troppo “vigorosa”, faticando a cesellare un fraseggio adeguato al momento drammatico. Spicca anche la bella vocalità autenticamente baritonale del giovane Junhyeok Park, dal suono caldo, avvolgente, omogeneo nell’emissione rendendo così il suo Marcello un vero secondo protagonista (come in effetti era nelle “Scènes de la Vie de Bohème” di Henry Murger). Corretta, ma davvero “leggera” nel registro, e piuttosto generica nel fraseggio, la prova di Fan Zhou (Musetta); rutilante, sonoro e molto coinvolto scenicamente lo Schaunard di Davide Peroni, mentre forse ancora acerbo il Colline di Gabriele Valsecchi, che compensa con buona propensione scenica un’interpretazione tutto sommato bidimensionale, anche nell’arioso della “vecchia zimarra“. Infine, inaspettatamente piacevole, ben scandito e fraseggiato il Benoît di Alfonso Ciulla. Certamente soddisfacente la performance del Coro di OperaLombardia, coeso e presente alla scena, e anche le Voci Bianche del Teatro Sociale di Como si sono distinte per chiarezza dell’eloquio e omogeneità del suono (un plauso al maestro Massimo Fiocchi Malaspina, istruttore di entrambe le compagini). Crediamo tuttavia che un simile giovane cast, che ha fornito una prova complessiva tanto buona, avrebbe meritato una messa in scena che partecipasse della grande bellezza di questa musica, e non tentasse di sabotarla nel nome di una ridicola pretesa di modernità. Foto Andrea Butti