Parma, Festival Verdi 2024: “La battaglia di Legnano”

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano da La Bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di
 Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa RICCARDO FASSI
Lida MARINA REBEKA
Arrigo ANTONIO POLI
Rolando VLADIMIR STOYANOV
Marcovaldo ALESSIO VERNA
Il Podestà di Como / I Console di Milano  EMIL ABDULLAIEV*
II Console BO YANG*
Imelda ARLENE MIATTO ALBELDAS*
Uno Scudiero di Arrigo/ Un Araldo ANZOR PILIA*
*Allievi e già allievi dellAccademia Verdiana
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Diego Ceretta
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Valentina Carrasco
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Parma, 20 ottobre 2024
“…sprona il suo possente cavallo fiammingo, il quale nitrendo, lacerato nei fianchi si rizza sulle coscie e batte colle ferrate zampe del davanti sul tavolato del Carroccio”: il soggetto è Federico, il Barbarossa, e l’autore è Felice Govean, patriota torinese ideatore della fortunata raccolta “Libri per il popolo”, che come forse si può dedurre dal frammento citato consiste di narrazioni piuttosto melodrammatiche e, ovviamente, in chiave propagandistica risorgimentale di gloriosi episodî dalla storia patria. E magari, chi sa?, proprio da qui è guizzata l’intuizione di Valentina Carrasco che ha voluto centrare la sua Battaglia di Legnano sul cavallo, da sempre simbolo e vittima di ogni battaglia che si rispetti. L’onesto patriota piemontese non rientra tuttavia fra le letture del grande Cammarano. Che riesce, da Napoli, a convincere un Verdi tutto ubriacato dell’aria di Parigi e ormai quasi seccato dalla storia del contratto col San Carlo, ad accettare un intreccio tratto della pièce di Méry (sì, uno dei futuri librettisti del Don Carlos) La bataille de Toulouse, ou Un amour espagnol; intreccio che già gli era servito per il donizettiano Poliuto (ma che ai napoletani era nuovo, essendo stato il Poliuto affondato dalla censura borbonica). Quindi siamo alla consueta ricetta: l’intreccio sentimentale, da condirsi poi con uno sfondo storico. Ma Verdi ha in mente uno spettacolo di parigine proporzioni, a lui pare che “se non vi è qualche cosa di grandioso, di spettacoloso manchi sempre qualche cosa” e poi, per carità, senza l’amore: “perché sempre far l’amore come perno di tutti i drammi?”. Cammarano ci resta male: “ed io credeva che l’introduzione, il giuramento dei cavalieri della morte, e tutto l’intiero ultimo atto, da me aggiunto, potessero essere a quelle passioni ciò ch’è un bel fondo alle figure d’un quadro”. Illuso: Verdi vuole le figure sullo sfondo e lo sfondo in primo piano. Quindi piuttosto parigina e sperimentale come opera di propaganda risorgimentale italiana. E tutto questo per arrivare a dire: ma perché questo titolo così ricco, così carico d’idee non ci piace, né è piaciuto granché dopo le primissime esecuzioni (in cui l’entusiasmo era tale che il quarto atto veniva replicato per intero)? Difficile trovare una risposta razionale. Soprattutto se si esce dal Teatro Regio dopo averlo ascoltato nella splendida, consapevole, cesellata (aggettivo normalmente rifuggito, ma qui è il caso di farvi ricorso) direzione di Diego Ceretta. Tanto per citare un momento solo: che cosa vien su dalla buca, dove a sedere è l’ottima orchestra del Teatro Comunale di Bologna, mentre Arrigo si appresta a scrivere alla madre! E come non pensare, di poi, alla Luisa, alla Violetta, alle loro lettere? Protagonista assoluto è il Coro, il sempre sia lodato Coro del Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini che stupisce ogni volta per compattezza, volume, rotondità, bellezza del suono. E poi l’ovazionata Marina Rebeka, con quello strumento avvolgente, brillante, sensuale, carnoso, voce che corre: corre, raggiunge e conquista. Bizzarramente orbato dell’applauso alla sua prima aria, invece, ma ben ricompensato dopo, l’Arrigo di Antonio Poli: vocalmente centrato, saldo e sicuro, dalla voce robusta e piena, tratteggia un eroe sensibile e umano. Vladimir Stoyanov è una vecchia certezza che con Parma e con il Festival ha una consuetudine particolarmente affettuosa, e sembra prendere molto sul serio la pacata raffinatezza di Ceretta che nel suo cantabile vede il germe del Di Provenza: sicché di gran trasporti guerrieri non se ne sentono. In generale, la recita non è attraversata da un gran turbine d’energia, di vitalità. Come invece ce ne mette Riccardo Fassi nel suo ahinoi troppo breve intervento come Barbarossa: voce più unica che rara di autentico basso, e gloriosa per volume, timbro, morbidezza, vigoria, una delizia che lascia appagati. A completare dignitosamente il cast l’affidabile Alessio Verna nel ruolo del delatore Marcovaldo e la squillante Imelda di Arlene Miatto Albeldas. Ancora, nei ruoli di fianco, i bravi Allievi e già dell’Accademia Verdiana. Dell’allestimento si accennava all’inizio. È sicuramente condivisibile l’idea del cavallo: se non altro perché serve su un piatto d’argento materiale di prima teatralità a Margherita Palli, che difatti riesce, complici anche le luci di Marco Filibeck, a trarne un intero spettacolo. Del resto il cavallo, e una ronconiana come lei lo sa meglio di chiunque altro, è sempre portentoso a teatro. Poi però, andando oltre il cavallo, la regia sembra abbandonare i cantanti ai tipici tic attoriali da cantante lirico. E, forse, anche la povera Silvia Aymonino, che per le divise militari in particolare è imbattibile, è stata lasciata nella difficoltà di non poter sciogliere l’imbarazzo temporale voluto dalla regia. Foto Roberto Ricci