Arnold Schönberg (1874 – 1951): “Pierrot Lunaire” op.21 (1912)

Arnold Schönberg (Vienna 13 settembre 1874 – Los Angeles 13 luglio 1951)
A 150 dalla nascita del compositore – 5
“Ma ecco che due miei nuovi lavori determinarono un rovesciamento della situazione: Harmonielehre, pubblicata nel 1911, e i ventun melologhi del Pierrot Lunaire. Fino a quel momento ero considerato solo un distruttore, e anche il mio mestiere musicale era messo in dubbio nonostante le  numerose opere composte nel primo periodo  […]. Giunsi così abbastanza rapidamente al primo apice della mia carriera quando, nel 1912, i melologhi del Pierrot Lunaire mi procurarono un grande successo grazie alla novità che essi presentavano da molti punti di vista”.

Fu lo stesso Schönberg a ricordare, in questa conferenza in memoria di Cooke Daniels tenuta al Colorado Consistory Auditorium l’11 ottobre 1937, l’importanza, per la sua carriera di compositore, del Pierrot Lunaire, il cui testo letterario è costituito da 21 delle 50 poesie dell’omonima raccolta di Albert Giraud nella traduzione di Otto Erich Hartleben. La prima idea dell’opera risale all’incontro avvenuto a Berlino nel 1911 con l’attrice Albertine Zehme, diva del Cabaret letterario, la quale, all’inizio dell’anno successivo, chiese di scrivere un brano per i suoi recitals al compositore suggerendogli, così, l’idea di realizzare un intero ciclo di liriche che sarebbe stato ultimato in pochi mesi dal 12 marzo  al 9 luglio 1912. Da un punto di vista formale l’opera è divisibile in tre parti di sette liriche ciascuna raggruppate secondo un principio tematico con Pierrot che si presenta al pubblico in tre vesti diverse. Nella prima parte Pierrot è, infatti, il poeta della sofferenza e della disperazione affascinato dalla luna, mentre nella seconda diventa la vittima di visioni maniacali. Soltanto nella terza è possibile trovare un forte accento ironico con il quale la maschera si libera dai fantasmi creati da sé per lanciarsi in atteggiamenti farseschi. Se il testo aveva assunto per Schönberg la funzione di organizzare, dal punto di vista formale, la sua musica, nel Pierrot Lunaire avviene un’operazione inversa, in quanto la forma di rondò, che ciascuna poesia  presenta con un ritornello iniziale ripetuto alla fine della lirica, è molto spesso disattesa dal compositore il quale, in questo modo, elude la possibile monotonia derivata dalla ripetizione dello stesso schema formale. Da un punto di vista esclusivamente musicale, assume rilievo, in questa composizione, l’introduzione della Sprechstimme (voce parlata) ben diversa dallo Sprechgesang (canto parlato) come lo stesso Schönberg affermò nella prefazione all’opera: “L’esecutore deve essere scrupolosamente informato della differenza che corre fra «tono cantato» e «tono parlato»: il tono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il tono parlato, con diminuendi e crescendi, abbandona subito l’altezza iniziale. L’esecutore deve però guardarsi bene dal cadere in un tipo di parlare «cantato». Non è questo che noi intendiamo; non si ha certo di mira un modo di parlare realistico-naturale. Al contrario, deve essere ben chiara la differenza fra il linguaggio comune ed un linguaggio che operi in una forma musicale; ma esso non deve neppure richiamare alla mente il canto”.
Il canto, richiesto da Schönberg in quest’opera è molto originale, in quanto l’esecutore deve toccare il suono senza intonarlo in modo perfetto allontanandosi da esso ora con il crescendo ora con il diminuendo. Da un punto di vista strumentale, l’organico, composto dalla Sprechstimme, dal pianoforte, da un flauto, da un clarinetto, da un violino e da un violoncello, è sfruttato nella sua interezza soltanto in sei brani, mentre negli altri si passa dal duetto del VII brano, dove appaiono soltanto il flauto e la voce recitante, al quartetto del I (pianoforte, flauto, violino, violoncello e voce recitante). Ogni brano costituisce, in questo modo, un piccolo gioiello in sé chiuso, anche se inserito nell’atmosfera allucinata che contraddistingue l’opera, all’interno della quale ritornano alcune forme classiche. È sorprendente come, a differenza di altre opere in cui, per ammissione dello stesso compositore, il testo aveva dato una forma alla struttura musicale del brano, qui, invece, vi è il sistematico ricorso a forme contrappuntistiche codificate dalla nostra tradizione come la passacaglia (Nacht), il canone retrogrado (Parodia) e la fuga e il canone sovrapposti (La macchia lunare). Le 26 misure di Nacht nascono, infatti, da cellula melodica brevissima e molto semplice caratterizzata da una terza minore ascendente seguita da una terza maggiore discendente che, in un primo momento, dà vita a un canone tra clarinetto e violoncello a cui si unisce, in seguito, il pianoforte, e, in un secondo momento, viene variata per doppia diminuzione originando un disegno melodico che diventa l’elemento costitutivo del successivo sviluppo del brano. Un canone doppio tra clarinetto e ottavino, da una parte, e violino e violoncello, dall’altra, è il protagonista di Der Mondfleck (La macchia lunare), dove è sovrapposto a una fuga affidata al pianoforte il cui soggetto è raddoppiato con terze maggiori.
La ripresa di forme codificate dalla tradizione, che, a una prima e superficiale analisi, potrebbe sorprendere, in realtà, è una spia dell’evoluzione del linguaggio musicale di Schönberg ormai alle soglie dell’elaborazione della dodecafonia i cui punti di forza sono costituti dai principi del contrappunto. Nuove forme di organizzazione sonora, quindi, cominciano ad affacciarsi nella mente del compositore che, dopo aver distrutto il sistema tonale, dimostrando che era possibile scrivere delle composizioni non determinate dai principi dell’armonia tradizionale, ritornò a quelle forme contrappuntistiche che precedettero storicamente la nascita della tonalità e dell’armonia basata su di essa. In quest’opera, non concepita secondo i principi dodecafonici non ancora elaborati, troviamo, quindi, delle anticipazioni della futura arte di Schönberg la quale si sarebbe fondata, al tempo stesso, su una consequenziale evoluzione del suo stile e del suo linguaggio e su una solida conoscenza della tradizione musicale che, come vedremo, analizzando le opere dodecafoniche, sarà presente in modo determinante. Il Pierrot Lunaire costituisce, quindi, il punto di arrivo di un’evoluzione, che a Schönberg, almeno inizialmente, sembrava priva di sviluppi, ma i cui primi germogli sono presenti, forse ancora a livello inconscio, in essa, se, nel decennio successivo, la sua attività creativa subì una forma di arresto eccezion fatta per l’oratorio, purtroppo incompiuto, Jakobleiter (La scala di Gaicobbe) e i Vier Orchesterlieder op. 22 (Quattro Lieder per orchestra), scritti tra il 1913 e il 1916. Qui il testo italiano