Venezia, Teatro La Fenice: “Turandot”

Venezia, Teatro la Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2023/24
TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot SAIOA HERNÁNDEZ
L’imperatore Altoum MARCELLO NARDIS
Timur MICHELE PERTUSI
Calaf ROBERTO ARONICA
Liù SELENE ZANETTI
PingSIMONE ALBERGHINI
Pang VALENTINO BUZZA
Pong PAOLO ANTOGNETTI
Un mandarino ARMANDO GABBA
Il principe di Persia ALESSIO ZANETTI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso
Costumi Simone Valsecchi
Light designer Fabio Barettin
Nuovo Allestimento Fondazione Teatro La Fenice 
Venezia, 3 settembre 2024
Torna alla Fenice la Turandot di Puccini nell’allestimento firmato da Cecilia Ligorio – con scene di Alessia Colosso, costumi di Simone Valsecchi e light design di Fabio Barettin –, che si basa su quello ideato dalla stesa regista veronese, insieme ai tre collaboratori appena citati, per la stagione 2018-2019. Mettere in scena l’ultimo titolo del catalogo pucciniano significa confrontarsi con una serie di enigmi. Non ci riferiamo tanto ai tre oscuri quesiti posti dall’algida principessa all’ardente Calaf, quanto ad un quarto enigma, ahimè, di impossibile soluzione: quello riguardante la scena finale, che Puccini riuscì solo ad abbozzare, prima che una morte prematura ponesse fine alla sua attività creativa. Peraltro, Turandot rimase incompiuta anche per il fatto che il compositore si era bloccato di fronte a cruciali problemi drammaturgici: soprattutto quello di rappresentare in modo credibile il repentino mutamento psicologico dei protagonisti. L’incarico di completare Turandot fu dato nel 1925 da Casa Ricordi a Franco Alfano, che peraltro si discostò molto dagli schizzi lasciati dal maestro, tra l’altro costruendo un finale, che richiede ai due interpreti di cimentarsi con una tessitura acutissima e di confrontarsi con un’ipertrofica orchestra. Così si opta generalmente per una versione ridotta. In ogni caso, non potremo mai sapere cosa intendesse Puccini con l’annotazione “Poi Tristano”, posta su un foglio di schizzi. Tornando alla concezione registica, Cecilia Ligorio vede nell’opera pucciniana la storia fiabesca del viaggio iniziatico di Calaf, a cui si intreccia quello della coppia Liù-Timur. Ma anche la crudele principessa dovrà affrontare, dopo l’incontro con Calaf, un suo percorso interiore verso il cambiamento. Anche le maschere – ognuna delle quali si confronta con i suo doppio bambino –sono, in questa messinscena che assegna loro particolare importanza, alla ricerca di una propria dimensione umana, nel momento in cui rimpiangono la “casa nell’Honan”, identificata con una vita da trascorrere serena, anziché al servizio di un potere violento. L’elemento fiabesco domina nelle scene – altamente metaforiche – poste da Alessia Colosso all’interno di una grande cornice di lacca blu, che delimita il regno della fiaba, della fantasia ed evoca la stessa Cina. Entro questa dimensione fantasmatica si agitano messaggi segreti, reconditi desideri, paure e sogni: così la luna diventa una grande sciabola che mozza il capo al Principino di Persia, le ombre dei defunti circondano Calaf e lo provocano, le stelle – una costellazione di lampadine – si spengono alla morte di Liù. Un impianto scenico, cui contribuisce con efficacia il disegno delle luci di Fabio Barettin, che privilegia la penombra finché, con la morte di Liù, alla fioca luce notturna subentra gradatamente quella del sole che sorge, e nel contempo i protagonisti assumono la loro propria identità. Originale la scelta di Simone Valsecchi, che – seguendo anche lui la logica dell’inconscio – ha disegnato costumi di varie fogge: ispirati a quelli delle popolazioni nomadi mongole (Calaf, Timur, Liù), desunti dalla tradizione cinese (Turandot, Altoum), di foggia contemporanea quelli per il popolo e il Mandarino, quest’ultimo munito anche di trench e ventriquattrore. La direzione musicale, Francesco Ivan Ciampa evidenzia – forse anche troppo – il ruolo estremamente suggestivo che Puccini assegna alle percussioni, nell’ambito di un potente organico orchestrale, tra l’altro, ispirato alle straussiane Salome ed Elektra. La sua lettura si caratterizza talora per un vigore esasperato di stampo espressionista, fin dal folgorante inizio in medias res – che ricorda l’incipit di Tosca –, il cui carattere sinistro è dovuto all’intervallo di quarta aumentata (tritòno), che intercorre tra la prima e la seconda cellula del tema. Ma il suo gesto direttoriale sa essere anche lieve nei momenti in cui l’orchestrazione diventa rarefatta come nella statica invocazione alla luna. Ne consegue un’interpretazione che restituisce tutta la modernità della partitura – dove, alla semplicità narrativa di una storia fiabesca, si contrappone un’indiscutibile ricchezza sinfonica –, immergendo il pubblico in una pluralità di stili e atmosfere, e nel contempo valorizzando la capacità – che solo Puccini aveva – di toccare immediatamente le corde dell’essere umano. Saioa Hernández è una principessa gelida ed altera: lo si è colto nel gesto come nell’uso della voce, particolarmente potente e corposa. Il soprano spagnolo ha brillato nell’ardua “In questa reggia”, affrontando agevolmente la tessitura siderale di questa pagina sublime. La sua Turandot è più incline ad un’espressività esasperata che alle espansioni liriche, nondimeno la sua “trasformazione” finale è apparsa abbastanza credibile, nonostante i problemi drammaturgici sopra accennati. Meno convincente il Calaf di Roberto Aronica , che ha manifestato qualche difficoltà con effetti sull’emissione – talora forzata – e sugli acuti – dal suono piuttosto aspro –, oltre che sulla capacità di prodursi in sfumature e sottigliezze interpretative, come si è constatato anche in “Nessun dorma”. Pienamente calata nella parte Selene Zanetti, che ci ha consegnato una Liù generosa ed eroica nel suo rinnegare se stessa per amore in antitesi all’egocentrismo della protagonista, imponendosi nelle sue due arie (“Signore, ascolta “ e “Tu, che di gel sei cinta”), nonostante qualche limitata défaillance. Ben timbrato e convincente nei panni di Timur Michele Pertusi. Affiatato nell’insieme, ma anche efficace nei singoli interventi, il Trio delle Maschere: Simone Alberghini (Ping), Valentino Buzza (Pang), Paolo Antognetti (Pong). Autorevole l’Altoum offerto da Marcello Nardis come il Mandarino di Armando Gabba. Ottima – per intonazione, coesione e fraseggio – la prestazione del Coro della Fenice e dei Piccoli Cantori Veneziani, rispettivamente istruiti da Alfonso Caiani e Diana D’Alessio. Applausi più che convinti a fine serata.