Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“ERMIONE”
Azione tragica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, a cura di Patricia B. Brauner e Philip Gosset
Ermione ANASTASIA BARTOLI
Andromaca VICTORIA YAROVAYA
Pirro ENEA SCALA
Oreste JUAN DIEGO FLÓREZ
Pilade ANTONIO MANDRILLO
Fenicio MICHAEL MOFIDIAN
Cleone MARTINIANA ANTONIE
Cefisa PAOLA LEGUIZAMÓN
Attalo TIANXUEFEI SUN
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Johannes Erath
Scene Heike Scheele
Costumi Jorge Jara
Video Bibi Abel
Luci Fabio Antoci
Nuova produzione
Pesaro, 21 agosto 2024
«La collera, in musica, serve solo come elemento di contrasto». Stendhal si servì di questo argomento nella Vie de Rossini per comprendere il fallimento di Ermione, giacché – a suo dire – in quest’opera tutti i personaggi sono preda dell’ira, che costituisce l’unica cifra emotiva della vicenda e della musica. Evidentemente, tanto il giudizio quanto l’argomentazione risultano discutibili, soprattutto dopo aver visto la nuova produzione del Rossini Opera Festival, affidata alla direzione musicale di Michele Mariotti e alla regia di Johannes Erath, forti entrambi di una compagine orchestrale e di una compagnia vocale davvero ragguardervoli. Il declamato e l’asciuttezza dell’apparato belcantistico di Ermione pongono degli interrogativi su come interpretare vocalmente l’opera; in più, la vicenda mitologica che Tottola desume da Racine propone personaggi dal carattere estremamente ambiguo. Rispetto alla rappresentazione “neoclassica” del ROF 2008, questa di Erath è radicalmente opposta, perché non si arrende all’indeterminatezza psicologica dei personaggi; al contrario, si sforza di comprenderne l’operato e le interazioni, con un esito che, nella sua crudezza estetica, può anche non piacere, ma è sicuramente sorretto da un processo di interpretazione. A Pesaro, l’opera e l’allestimento non soltanto piacciono, ma suscitano un entusiasmo che negli ultimi anni non ha avuto eguali, tanto nel pubblico come nella critica, forse perché incarnano perfettamente un certo gusto diffuso e alla moda, che finora è rimasto quasi inedito nelle produzioni del Rossini serio. Più che la regia dei movimenti o la concertazione musicale o le scene (di Heike Scheele) o i costumi (di Jorge Jara), è l’effetto complessivo della fotografia a caratterizzare lo spettacolo. Una fotografia sonorissima, beninteso, in cui la musica illustra la violenza e il sadismo della storia, tutto su di un nerissimo fondale: tableaux popolati da cinici cortigiani si susseguono come sequenze alla Kubrick, in cui è il gusto della violenza sfrontata a trionfare, con un unico obbiettivo: sedurre il pubblico e indurlo a condividere il piacere che si prova (inconsciamente?) di fronte alla sofferenza altrui; quella di Astianatte, legato, incappucciato, preso a calci, ma anche quella di Andromaca, e della stessa Ermione, oggetto della malvagità di Pirro. La volgarità degli indumenti, come nei film di Tarantino, prelude all’agire subdolo e imprevedibile dei caratteri. E tutto ha causa non nell’ira (come, un po’ troppo aristotelicamente voleva Stendhal), bensì nella passione amorosa. Il regista deve aver studiato molto bene il libretto, accorgendosi che il termine chiave più ricorrente è proprio “Amore”: per questo lo trasforma in un personaggio androgino costantemente presente sulla scena, quale grande burattinaio di tanti pupazzi che si credono eroi ed eroine dell’Antichità classica! E quanto più fanno la voce grossa (anche fuor di metafora), tanto più rivelano la loro umanissima debolezza e postmoderna fragilità. Giacché l’intesa tra regista e direttore è perfetta, la modalità con cui si affronta la partitura è consequenziale: mai si era ascoltato nel Rossini di Mariotti un suono tanto scabro, violento, accelerato e contrastato con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI (la tavolozza dei colori è agitatissima, sin dai legni della sinfonia). E, ancora di conseguenza, le voci dei due protagonisti, Ermione e Pirro, gareggiano in aggressività, toni eccessivi, declamati di un realismo (o addirittura verismo) rossinianamente inusitato. Anastasia Bartoli conferma le qualità vocali per cui era stata apprezzata l’anno scorso in Eduardo e Cristina, rivelandosi interprete ideale, non di Ermione in generale, ma di questa specifica Ermione, esagitata e muscolare, alla pari di Enea Scala come Pirro: entrambi si concentrano su di un’emissione tonitruante, gareggiando in atteggiamenti di forza, un po’ a discapito della precisione nella coloratura e nelle agilità. Il soprano, inoltre, ha una leggera tendenza alle note fisse, forse per effetto della costante sollecitazione del diaframma e delle pieghe vocali; e forse le stesse cause determinano nel primo tenore alcune piccole risonanze di gola. In ogni caso, entrambi tengono soggiogato l’ascoltatore con la loro esuberanza e sicurezza vocale, soprattutto quando enunciano nel registro centrale (Bartoli) o in quelli centrale e basso (Scala). A confronto di tale atmosfera vocale concitata, la cavatina dell’Oreste di Juan Diego Flórez sembra davvero il deus ex machina della tradizione rossiniana, che addita un’alternativa musicalmente rassicurante, oltre a fornire una lezione magistrale di ars canendi; la necessità di qualche pausa per assumere il fiato necessario all’impervia prova nulla toglie alla validità di un canto dal valore perenne. Nella stretta finale dell’opera, per esempio, una puntatura molto efficace del soprano chiude la prestazione della Bartoli, subito seguita da un’altra dello stesso Flórez: mondi vocali diversi che si passano virtuosamente il testimone. L’Andromaca del mezzosoprano Victoria Yarovaya è curata nella pronuncia di ogni fonema e nel porgere molto dignitoso, da personaggio autenticamente regale. Un cameo, anche se di piccole dimensioni in siffatto arengo, la voce del tenore Antonio Mandrillo come Pilade. Ermione come allegoria dell’impossibilità dell’amore non è certo un suggerimento originale. Ma quando, durante il duetto del II atto tra la figlia di Menelao e il figlio di Agamennone le passioni sembrano ricomporsi, e sullo sfondo si proietta l’interno di un teatro con i vari ordini di palchi, il colpo d’ala dell’ironia è patente: tale pacifica ricomposizione potrebbe avvenire solo nella trama di un melodramma convenzionale. Per questo, subito dopo, il teatro tremola, ondeggia fino a spengersi, mentre dietro una cortina tutti i figuranti applaudono lentamente, come in una compiaciuta canzonatura. Anch’essa, nelle relazioni umane, una forma di violenza incomprimibile. Foto Amati-Bacciardi © ROF