Pesaro, 45° Rossini Opera Festival: “Bianca e Falliero”

Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“BIANCA E FALLIERO”
Melodramma in due atti di Giuseppe Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini a cura di Gabriele Dotto
Priuli NICOLÒ DONINI
Contareno DMITRY KORCHAK
Capellio GIORGI MANOSHVILI
Falliero AYA WAKIZONO
Bianca JESSICA PRATT
Costanza CARMEN BUENDÍA
Ufficiale / Usciere CLAUDIO ZAZZARO
Cancelliere DANGELO DÍAZ
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Roberto Abbado
Regia Jean-Louis Grinda
Scene e costumi Rudy Sabounghi
Luci Laurent Castaingt
Nuova produzione
Pesaro, 19 agosto 2024
Con una sinfonia il cui tema iniziale sarebbe stato ripreso per Le siège de Corinthe, un numero d’insieme che, immettendo al finale primo, anticipa di parecchi anni il sestetto di Lucia di Lammermoor, varie atmosfere che oscillano tra Bellini e il Donizetti “veneziano”, Bianca e Falliero sembra davvero la partitura ideale per inaugurare un’edizione del Rossini Opera Festival: titolo raro (ma non desueto), colmo di elementi musicali destinati a fruttuoso sviluppo, è un’opera coerente, unitaria, ricchissima di invenzione musicale (originale) e drammaturgica, anche per le ampie proporzioni del libretto di Felice Romani: insomma, il Rossini serio più coscienzioso (non così ardito come nell’Ermione, andato in scena  soltanto pochi mesi prima a Napoli con scarso successo), che prepara una pièce bien faite, degna di inaugurare la stagione di Carnovale scaligera del 1819 all’insegna del belcanto più disteso e fiorito. Roberto Abbado guida l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, calibrando di scena in scena le sonorità adeguate al rinnovato spazio del ROF, l’Auditorium Scavolini (già Palazzetto dello Sport, non più in uso al festival dal lontano 2005, quando chiuse con un glorioso Barbiere ronconiano), ora destinato – a quanto pare – a ricoprire un ruolo sempre più importante nelle annate future. In effetti, l’acustica è assai buona; certo, non sontuosa, ma almeno senza alcun effetto di eco, come accade invece in altri spazi della rassegna pesarese. La concertazione di Abbado è magnifica e accuratissima, anche se nella resa di alcuni strumenti si registra qualche piccolo cedimento, forse dovuto alla stanchezza di fine festival. La compagnia di canto vede un giovane mezzosoprano, ben conosciuto a Pesaro sin dal 2017, e un soprano di fama internazionale dalla carriera ben nota: dai tempi della Pietra del paragone (2017) o del Barbiere (2018) Aya Wakizono è cresciuta molto sul piano vocale e si può affermare che è una cantante dalla corretta impostazione tecnica e dalla buona professionalità. Tuttavia, nel suo Falliero l’emissione manca di incisività nel registro centrale (in cui il personaggio esprime molte delle sue frasi); l’indubbia bellezza della voce e il fraseggio cercano di supplire a questa mancanza, anche con pregevoli finezze, ma il canto d’agilità ha bisogno di un maggior perfezionamento, soprattutto nei gruppetti discendenti e, più in generale, nella capacità di sgranare le singole note. Questo non impedisce che nella grande scena del II atto la Wakizono raccolga un’autentica ovazione. Jessica Pratt, che inaugurò le sue presenze al ROF nel 2011 come protagonista dell’Adelaide di Borgogna, è una Bianca dalla buona proiezione e dalla discreta corposità vocale, anche se nel registro acuto il timbro tende a sbiancarsi. Gli acuti, in generale, ci sono parsi tesi, con inflessioni metalliche, sebbene il soprano riesca a mantenerli sotto controllo (la puntatura – invero non necessaria – del rondò finale alla prima è stata piuttosto fortunosa: un incidente che nella recita a cui abbiamo assistito non si è, fortunatamente, ripetuto). Anche la Pratt ottiene una meritata ovazione dopo l’aria del I atto. Trattandosi di due voci femminili che coincidono con i personaggi protagonisti e amanti, la prestazione delle due interpreti deve essere valutata congiuntamente; e la differenza di timbri giova senza dubbio al contrasto dei colori, decisamente godibile nel corso dei vari duetti e numeri d’insieme. Il miglior in campo ci è parso Dmitry Korchak, nella parte di Contareno: la sua prestazione entusiasma non soltanto per la sicurezza del registro acuto, ma anche per la capacità di alleggerire il suono, i pianissimo, il fraseggio studiato e la cura della dizione. Completa il quartetto dei protagonisti il basso georgiano Giorgi Manoshvili, molto apprezzato per la cavata autorevole e il porgere sicuro: anche se non ha l’onere di pezzi solistici, la parte di Capellio è determinante per lo scioglimento dell’intreccio. Molto corrette le prestazioni dei comprimari e del Coro del Teatro “Ventidio Basso” istruito da Giovanni Farina. A fronte del grande successo sul versante musicale, su quello visivo e registico lo spettacolo non funziona altrettanto bene. Che cosa fa il regista Jean-Louis Grinda per porre in risalto (o, almeno, per comprendere) l’esteso apparato belcantistico con cui tutta l’opera si dispiega? Un bel nullino … Lo spettacolo, infatti, è di un’inutile eterogeneità, che frammischia tante idee diverse, tutte sbagliate: gli spezzoni cinematografici della guerra civile spagnola, il tripudio floreale tricolore (frutto di un’interpretazione assai discutibile dei versi presuntamente “politici” di Romani), l’inserzione di una nonna (o la madre anziana?) di Bianca, che nel libretto non c’è, il notturno oleografico di Venezia, i costumi (invero bruttini, realizzati da Rudy Sabounghi, che firma anche le scene) che vanno dal XVII al XX secolo … tutto produce un effetto frammentario, alternando momenti di confusione a lunghe sequenze statiche. Se il diavolo è nel dettaglio, valga ricordarne uno dei più fastidiosi, come la ricostruzione della campagna militare della Spagna contro Venezia, con la proiezione durante il I atto della mappa di battaglie a Treviso e nei pressi della laguna. Nel libretto di Romani, però, il Doge dice che «dalle Orobie mura | ci minaccia l’Ispano», e anche Falliero ricorda quale scenario di battaglia «le mura altere | dell’Orobia città», che è ovviamente Bergamo. L’Adda segnava il confine tra i possedimenti spagnoli e il territorio di San Marco ai tempi dello spionaggio del marchese di Bedmar (1617-1618; anch’egli è menzionato nell’opera) e nei decenni successivi. Il lettore di Manzoni ricorderà infatti l’entusiasmo di Renzo nell’“espatriare” verso Bergamo dopo aver superato il fiume e aver raggiunto la terra del leone veneziano.   Foto © Amati Bacciardi