Martina Franca, 50° Festival della Valle d’Itria 2024: “Ariodante”

Martina Franca, Teatro Verdi, 50° Festival della Valle d’Itria 2024
“ARIODANTE”
Dramma per musica in tre atti libretto di Antonio Salvi
Musica di Georg Friedrich Händel
Ariodante CECILIA MOLINARI
Polinesso TERESA IERVOLINO
Ginevra FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Dalinda THEODORA RAFTIS
Lurcanio MANUEL AMATI
Re di Scozia BIAGIO PIZZUTI
Odoardo MANUEL CAPUTO
Orchestra barocca Modo Antiquo
Direttore Federico Maria Sardelli
Regia Torsten Fischer
Scene Herbert Schäfer
Costumi Vallis Triantafillopulos
Disegno luci Pietro Sperduti
Martina Franca  29 luglio 2024
Ariodante di Händel non si era mai sentito in Puglia fino ad oggi. Bella, dunque, l’idea del direttore artistico Sebastian Schwartz di celebrare con il capolavoro händeliano (riscoperto appieno solo a partire dal 1926 con la visionaria messinscena di Willi Baumeister al Landestheater di Stoccarda) tanto il 50° anno di nascita del Festival della Valle d’Itria quanto il 550° di Ludovico Ariosto, il cui Orlando Furioso (nei canti dal quarto al sesto) nel 1708 ispirò il librettista Antonio Salvi per la stesura del dramma serio poi ripescato dall’impresario John Rich per inaugurare la nuova stagione del Covent Garden nel gennaio 1735, in concorrenza con la rivale Opera of the Nobility. Come sempre, nel caso delle opere serie londinesi di Händel, una sequela di arie si alterna a recitativi ridotti all’osso rispetto alla norma fissata da Metastasio. Questo tipo di drammaturgia oggi può essere realizzata come un ventaglio di affetti contrastanti tenuti insieme da un elegante e rigoroso impianto scenico. Il regista berlinese Torsten Fischer sfrutta le belle ed essenziali scene di Herbert Schäfer (una fuga di rettangoli all’insegna del nitore) per incastonarvi con estrema linearità una storia che parla di innocenza riconosciuta e che viene letta secondo lo spirito del Midsummer Night’s Dream (opera citata nelle note di regia). L’allusione al mondo shakespeariano spiega l’assenza totale di oggetti di scena che contrassegna questa regia intenta a interpretare la melodrammaturgia barocca con slancio immaginifico: basta un velo da sposa fatto indossare nella scena II.2 al protagonista come una cappa opprimente per far sì che subito si comprenda l’insieme di sentimenti che lo attanaglia (delusione, gelosia, rabbia). L’idea di collocare l’unico intervallo della serata (della durata di oltre tre ore) in concomitanza di questa vetta lirica ha giovato alla scorrevolezza dell’insieme, garantito soprattutto dalla direzione di Federico Maria Sardelli ammirevole sia per la continua verve, sia per la correttezza stilistica acquisita lungo decenni di studio condotto sulle fonti dell’amatissimo Vivaldi. La scelta di togliere dal basso continuo le anacronistiche batterie di tiorbe e chitarroni, di impiegare ai legni degli abili polistrumentisti, di non appesantire con inutili fronzoli il sostegno del clavicembalo (qui affidato al sempre ottimo Simone Ori) e soprattutto di giovarsi di una voce femminile sublime come quella di Cecilia Molinari per la parte eponima (all’epoca retta dal castrato Carestini) si pone alla base della perfetta riuscita di un allestimento che segue i più rigorosi dettami della Historically Informed Performance (l’edizione di Bernardo Ticci si basa sull’autografo conservato alla British Library) senza mai essere legnoso e riuscendo, al contrario, a restituire la vocalità, le dinamiche, le agogiche e i giochi timbrici primigeni; insomma ad avvicinarsi quanto più possibile al dettato dell’autore (si spiega così anche l’assenza dei balletti, non presenti nella fonte autografa, che Sardelli e Fischer qui non inseriscono). Oltre alla Molinari (perfetta per resa delle colorature, omogeneità di registro e scioltezza attoriale), la cui bravura rende goffo ogni elogio (del da capo della sua ultima aria una platea entusiasta ha preteso il bis), ha brillato l’intero cast: il Polinesso di Teresa Iervolino (per la caratterizzazione drammatica), la Ginevra di Francesca Lombardi Mazzulli (per l’intensità espressiva), la Dalinda di Theodora Raftis (per la luminosità del timbro), il Re di Scozia di Biagio Pizzuti (per presenza scenica e potenza vocale), il Lurcanio di Manuel Amati (per l’incisività e lo squillo) e l’Odoardo di Manuel Caputo (per la compostezza). L’incontenibile entusiasmo del pubblico ha dimostrato quanto sia vincente affrontare il repertorio dell’ultima stagione barocca con l’unione di rigore e fantasia, cimento ed estro. Foto Clarissa Lapolla