Turandot: L’incontro tra il pensiero di Puccini e l’allestimento di Zeffirelli
“È un rituale cinese, un gioco di crudeltà ove la posta in gioco è la testa del malcapitato concorrente alle grazie della principessa di gelo, con evidenti risvolti sado-masochistici. Lei, Turandot, è come una mantide religiosa, un grande ragno che i miserabili bruchi vagheggiano come lontana e irraggiungibile”.
Quest’anno, la 101° stagione del Festival operistico dell’Arena di Verona ha aperto con la ripresa della spettacolare Turandot realizzata nel 2010 da Franco Zeffirelli. Il regista, scenografo e sceneggiatore spentosi a Roma nel 2019 era profondamente innamorato dell’Arena. Con la sua mole e la sua tradizione culturale, l’Arena rappresentava per lui “una vetrina di suoni, luci e colori”, un abbraccio ideale “tra l’opera, i suoi elementi architettonici e il pubblico”, il posto più adatto ad esprimere il suo amore viscerale per “le trasformazioni sceniche, il divenire dell’immagine”. Vi era giunto per la prima volta da spettatore nel 1947 in compagnia di Luchino Visconti per assistere al debutto di Maria Callas nella Gioconda di Amilcare Ponchielli diretta da Tullio Serafin, ma vi debuttò come regista solo nel 1995 con il suo allestimento di Carmen. Tanti i titoli da lui in seguito curati per il Festival, tutti all’insegna di una particolare concezione di spettacolarità adatta al contesto, e che trovano nella Turandot del 2010 il suggello finale. Dopo essersi cimentato in questo spettacolo con grande successo dapprima alla Scala di Milano (1983) ed in seguito al Metropolitan di New York (1987), Zeffirelli esplicita ancor di più la reinvenzione fiabesca dello stile architettonico e dei cromatismi cinesi. Del resto, per il regista era quella “la Cina che voleva Puccini, una Cina di fantasia”. Non vi è dunque tanto la volontà di una rigorosa ricerca storico-filologica, ma il desiderio di proseguire su una linea che conduce da Le mille e una notte a Gozzi, ed allo stesso tempo la consapevolezza di rispondere con vivacità alla musica pucciniana. Ma cosa offre davvero l’allestimento di Zeffirelli al pensiero del compositore lucchese? Quando Puccini decide di lavorare sulla fiaba di Gozzi nel 1920, egli chiede ai librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni di operare dei cambiamenti al testo originale, che allo sguardo di diversi studiosi amplificano le questioni di genere, di razza, di classe, piuttosto che concentrarsi sulla narrazione di stampo romantico. In un articolo pubblicato su “The Musical Quarterly”, ad esempio, Ping-hui Liao sostiene come in Turandot si rifletta l’angoscia di Puccini per un’Italia che non riesce a divenire una nazione moderna. Da questo punto di vista, Calaf reincarna il potere patriarcale, mentre la figura con cui si identifica Puccini è quella di Liù, nella sua posizione problematica intermedia tra futuro e passato, amore e sacrificio, vittoria e sconfitta. Dal punto di vista strettamente musicale, inoltre, nel riprendere le melodie esotiche, Puccini si appropria dell’altro da sé in un periodo storico dedito all’espansione e colonizzazione. In sostanza, la folla di Gozzi diventa in Puccini un popolo in cerca di una guida e di una direzione, come quello italiano nel periodo tra la Prima Guerra Mondiale e l’avvento del Fascismo. Se Calaf è salutato dai cinesi come l’eroe destinato a guidarli fuori dal caos, ancor più interessante come anticipato è la figura di Liù. Dalla figura della principessa manipolatrice Adelma presente in Gozzi, si passa in Puccini al personaggio della schiava preferita di Turandot, una straniera non riconosciuta come cinese e dunque alienata. Divenuta simile alle altre donne pucciniane, si distingue tuttavia tra esse per l’effetto trasformativo del suo sacrificio, capace di convertire l’odio della protagonista per gli uomini nell’amore per Calaf. Liù è un fantasma del passato, Calaf è l’uomo del futuro. E la musica riflette la creazione del nuovo ordine e l’appropriazione culturale di cui tale personaggio si fa promotore. Nel risolvere gli enigmi, Calaf ripete le frasi di Turandot e le trasforma nel tema d’amore. Il Nessun dorma trasforma il decreto della principessa in qualcosa di diverso, evidenziando il ruolo dell’amore nel guidare il popolo fuori dalle tenebre. Ritornando dunque alla nostra domanda iniziale, l’allestimento fiabesco di Zeffirelli ha il merito di evidenziare le questioni simboliche sottese all’opera per come esplicitate nel trattamento pucciniano. In particolare, oltre alla maestosa piattaforma centrale, ai diversi livelli scenici, e ai rimandi culturali alle tradizioni cinesi, a giocare un ruolo importante nell’allestimento sono i costumi realizzati da Emi Wada. Nei loro rimandi all’Opera di Pechino, evidente è la differenziazione della classe dominante dal popolo comune e il presentarsi iniziale di Calaf come straniero. Le donne di corte offrono un’immagine di eleganza, purezza e superiorità, mentre i ministri intercalano sfumature comiche alla minaccia costante di morte. Centrale è il costume di Turandot. Nella sua crudeltà, ella appare ricoperta da un sontuoso vestito e da un imponente copricapo con pon-pon che la proteggono come un’armatura. Ma questo è possibile solo finché gli enigmi non vengono risolti. Ora è per lei tempo di arrendersi allo straniero, all’amore, di perdere il controllo sulla vita e sul destino. E addosso rimane solo una lunga tunica dorata. Photocredit@Ennevi