Roma, Caracalla Festival 2024: “Turandot”

Teatro dell’Opera di Roma Caracalla Festival 2024
“TURANDOT”

libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
La Principessa Turandot  ANGELA MEADE
L’Imperatore Altoum  PIERO GIULIACCI
Timur ALESSIO CACCIAMANI
Calaf LUCIANO GANCI
Liù MARIA GRAZIA SCHIAVO
Ping HARIS ANDRIANOS

Pong  MARCELLO NARDIS
Pang  MARCO MIGLIETTA
Un mandarino  MATTIA ROSSI
Il principe di Persia  GIUSEPPE RUGGIERO
Prima ancella ARTEMISA REPA

Seconda ancella MARIKA IIZUKA
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Francesco Micheli

Progetto scenografico Massimiliano e Doriana Fuksas
Costumi Giada Masi
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma

Roma, 16 luglio 2024
Secondo titolo pucciniano per rendere omaggio alla ricorrenza del centenario della morte del compositore è stata questa Turandot andata in scena a Caracalla, affidata come già Tosca alla regia di Francesco Micheli, alla scenografia dello studio Fuksas e per questa occasione alla esperta e collaudata bacchetta del maestro Donato Renzetti. Il regista reinventa la vicenda dell’opera trasformando la protagonista in una giovane Hikikomori che crea dall’isolamento della sua stanza l’azione teatrale stessa, come in una sorta videogioco nel quale i vari personaggi vivono e muoiono fin quando, presa dal meccanismo del gioco stesso riuscirà a spezzare la propria scelta di solitudine e a tornare libera. Lo spettacolo infatti si conclude con la morte di Liù e con Turandot che abbraccia la ragazza riconsegnandola alla società. Per i non addetti alle problematiche giovanili ed alla psichiatria gli Hikikomori sono “Coloro che si recludono nella propria abitazione per almeno sei mesi, con esordio nella seconda metà del terzo decennio di vita, e per i quali altri disturbi psichiatrici non sono sufficienti a spiegare il sintomo primario del ritiro” secondo Tamaki Saitō, lo psichiatra giapponese che per primo coniò il termine nel 1998. Il fenomeno dell’Hikikomori infatti non è una sindrome ma può essere considerato come una volontaria esclusione dalla vita sociale, una scelta di se-clusione, di profondo isolamento, diffusosi inizialmente tra la gioventù delle classi abbienti in Giappone  a partire dagli anni ’80 e poi, purtroppo, anche in altri paesi del mondo. Essa sembra costituire una sorta una ribellione della gioventù giapponese alla cultura tradizionale e all’intero apparato sociale da parte di adolescenti e giovani fino ai 30 anni di età che vivono reclusi nella loro casa o anche solo nella loro stanza senza alcun contatto con l’esterno, né con i familiari, né con gli amici, nel completo rifiuto di ogni attività sia essa scolastica o lavorativa. Negli anni l’argomento è stato più volte soggetto di rappresentazione sia nel teatro di prosa che nella regia lirica. Tornando allo spettacolo crediamo che la problematica di indubbio interesse sociale anche alla luce delle esperienze di isolamento individuale e collettivo causate dalla recente pandemia, soprattutto presentata in termini così tecnologici poco abbia a che vedere con la Cina di Gozzi raccontata da Adami, Simoni e soprattutto dalla musica di Puccini. Discutibile è sembrata la scelta di collocare il coro in buca vista l’importanza della parte e i numerosi scambi di battute con i personaggi. Va bene l’idea dell’isolamento e del rendere la meccanica, ripetitiva asetticità del videogioco ma tutto questo toglie inevitabilmente pathos alla azione drammatica e limita l’espressività. Difficile riuscire a commuoversi sulle frasi o le scene più celebri e attese dell’opera, partorite dal nevrotico isolamento della ragazza Hikikomori. Questo passaggio aggiuntivo per innestare un’altra vicenda su un’opera pensata diversamente e fin ad oggi dotata di una sua valida ed efficace autonomia crediamo che tolga autenticità scenica alle situazioni. Il mondo dei videogiochi ben poco si addice alla poetica pucciniana. Totalmente incomprensibile inoltre è sembrata poi la riproposta della stessa scenografia già vista qualche giorno prima e trovata poco pertinente per Tosca. Infine decisione non nuova, come già detto l’opera si conclude con la morte di Liù.  Senza qui volersi addentrare in discussioni infinite e di poca o nessuna utilità in merito alla scelta del finale il pubblico per un istante ha faticato a realizzare che lo spettacolo fosse finito, dunque qualche cosa non ha evidentemente funzionato. Con i limiti delle esecuzioni all’aperto e di una amplificazione forse eccessiva viceversa, la parte musicale dello spettacolo è risultata più che convincente. Ottima conferma, se mai ve ne fosse bisogno, è stata per agogica, chiarezza della concertazione e varietà di colori la direzione del maestro Donato Renzetti. Altrettanto splendida la prestazione del coro, preparato e diretto dal maestro Ciro Visco il quale nonostante fosse relegato in buca con l’orchestra tanto da non poter neppure presentarsi in palcoscenico a fine spettacolo per riscuotere i più che meritati applausi, ha dato ulteriore prova di grande professionalità, musicalità e varietà timbrica. E veniamo agli interpreti vocali della serata. Nel ruolo eponimo una colossale Angela Meade ha impersonato la principessa di gelo con voce ampia omogenea e dizione scultorea ben rappresentando con il solo suono e pochissimi movimenti la distaccata crudeltà del personaggio. Magnifico per squillo intonazione e sicurezza vocale il Calaf del tenore Luciano Ganci anche lui personaggio ed interprete fin nel suono e nella vocalità. Ugualmente ottima la Liù interpretata con sentimento e squisita musicalità da Maria Grazia Schiavo nonostante la regia non l’abbia certo aiutata nel rendere i momenti più alti e commoventi della sua bellissima parte. Bravi anche Piero Giuliacci per spessore vocale e dizione incisiva nei panni dell’Imperatore Altoum e Alessio Cacciamani che ha interpretato un Timur sensibile e regale e dalla cecità intermittente. Efficaci e simpatici sono stati Haris Andrianos, Marcello Nardis e Marco Miglietta rispettivamente Ping, Pong e Pang colorati, disinvolti e vestiti con una sorta di talare nera nella scena della tortura di Liù tanto forse per ricordarci chi sono i buoni e i cattivi su questa terra. Infine tutti corretti e in parte sono stati gli interpreti dei numerosi ruoli minori. E dopo un momento di iniziale indecisione il pubblico ha applaudito meritatamente gli interpreti di questa onerosa, complessa e amata partitura, complici il genio teatrale e musicale di Puccini e la bellezza delle Terme di Caracalla. Photocredit@FabrizioSansoni