Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni.
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot ANNA NETREBKO
L’imperatore Altoum RAUL GIMENEZ
Timur VITALIJ KOWALJOW
Il Principe Ignoto (Calaf) BRIAN JAGDE
Liù ROSA FEOLA
Ping SUNG-HWAN DAMIEN PARK
Pang CHUAN WANG
Pong JINXU XIAHOU
Un Mandarino ADRIANO GRAMIGNI
Prima ancella SILVIA SPRUZZOLA*
Seconda ancella VITTORIA VIMERCATI*
Il principe di Persia HAIYANG GUO**
*Artiste del Coro del Teatro alla Scala
**Allievo dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro di Voci Bianche Marco De Gaspari
Regia Davide Livermore
Scene Eleonora Peronetti, Paolo Gea Cucco, Davide Livermore
Costumi Mariana Fracasso
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Milano, 9 luglio 2024
Una Turandot e due ricorrenze: i cent’anni dalla morte del suo Autore, quest’anno, e i cent’anni dalla sua prima esecuzione nel 2026, quando l’allestimento verrà ripreso. Il regista è Davide Livermore: l’uomo che, piaccia o no, ha dato alla Scala degli ultimi anni un indirizzo estetico preciso, quell’impronta che in altri tempi erano i direttori musicali a dare. Orizzonte iconografico pop-pulp allo scivoloso confine col kitsch-trash, zeffirelliano dispiego di mezzi spettacolari ma soprattutto spettacolosi, ricorso alla tecnologia per effetti speciali che gareggiano affannosamente con il mondo cinematografico e delle serie tv: caratteri che ritroviamo tutti anche in questo poderoso e imponente impianto scenico che Livermore firma con Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco. Dove si fronteggiano, davanti all’usato ledwall, alti blocchi mobili di tetre case di Pechino (è il memorabile “Tetro alla Scala”, per fare il verso ad Arbasino che chiamava “Piccolo Tetro” quello delle buie depressioni frigerio-strehleriane). O dove, a fare da reggia, avanza dal fondo, fra una doppia fila di colonne trasparenti, un compatto carro scenico grigio con l’immancabile scalinata da rivista che serve alla Principessa per strascicarci sopra il lungo mantello, qui non dragonato ma pavonato (i costumi sono di Mariana Fracasso). Protagonista della scena è tuttavia l’enorme luna di pannelli led trasparenti, agile e inquieta, mobilissima dispensatrice di immagini. In mezzo a questo turbinio di movimenti, fra cavalli meccanici, cicogne e nevicate di coriandoli, si snoda una regia vera, attenta alla recitazione dei protagonisti e ai loro rapporti drammaturgici: è l’umanizzazione della fiaba. Anna Netrebko è una Turandot anomala, e proprio per questo tanto più affascinante. Il volume e il giro d’armonici impressionanti distraggono dall’intonazione talvolta fantasiosa. Il registro acuto resta di solidità, potenza, bellezza e ricchezza di suono impressionanti, e di sensualità e magia s’illumina nei suoi favolosi filati. Centri e gravi non sono quelli di un soprano drammatico, ma la geniale invenzione di un lirico dalle possibilità straordinarie. Comunque, qualunque amabile disquisizione vocale viene sbranata dalla tigre che è sul palcoscenico: una Turandot palpitante che rovescia il cliché dell’artigliata statua urlante. All’annunciato Alagna è subentrato Brian Jagde: forse un poco spaesato in uno spettacolo così complesso, non ha comunque fatto mancare il suo timbro lucente, l’emissione salda, il volume importante; solo il fraseggio resta sempre un po’ generico. Rosa Feola è un’ottima Liù, dal timbro gentile e perfetto di lirico puro, ma grintosissima e nient’affatto piagnucolante, anzi volitiva e coraggiosa: toccante e intelligente interprete, resta memorabile malgrado scopra una leggera oscillazione nel filare gli acuti. L’Imperatore non è il vegliardo relegato alla nuvoletta in cima alla scalinata, ma un affabile e cordiale vecchietto: a dargli voce è Raúl Giménez, che spezza con ritmica precisone le sue frasi e vi procura sempre senso ed espressione. Di quella ruffianata instagrammabile che sono i lumini commemorativi alla toscaniniana pausa dopo la morte di Liù s’è fatto già un gran parlare. In effetti commuoversi è difficile, fors’anche perché Vitalij Kowaljow, Timur, ha gran voce, ma parecchio ruvida, e né la dizione cartavetrata né l’emissione dura valgono ad addolcirla. Le tre maschere fanno piuttosto bene, anche se la dizione non è impeccabile: Pang è Chuan Wang, Pong è Jinxu Xiahou, Ping è Sung-Hwan Damien Park, che, vocalmente assai snello, vince la coppa delle agilità sceniche con una capriola che non interrompe il canto. Molto bene anche il mandarino di Adriano Gramigni. La direzione di Michele Gamba è ultranovecentesca, e giustamente, ma di un novecento in cui c’è molto Sacre e poca Salome. La tavolozza è quella livermoriana, avara di colori e prodiga di oscurità a forti contrasti: ne viene una Turandot arcaica, barbarica, brutale, cruda, aggressiva, dalle dinamiche roboanti e dai tempi precipitosi. Poco sfumata, poco fiabesca, poco magica, poco aurata. La suggestiva profondità sonora suggerita dagli interventi fuori scena di coro e banda di palcoscenico viene un po’ schiacciata da riporti molto ingombranti: così la misteriosa spazialità notturna che introduce il terz’atto non brilla di tanta poesia. Nonostante i vistosi miglioramenti di sera in sera, di scollamenti fra palco e buca ce n’è ancora qualcuno. Indomito e creativo l’ottimo coro di Alberto Malazzi. Di tipicamente novecentesco nella direzione di Gamba ci sono anche una certa liberalità a concedere fermate al tenore qualora lo desideri (per verità, la cosa era ben più evidente con l’irriducibile Eyvazov), i fastidiosi taglietti alla scena delle maschere, e l’adozione (seppur ob torto collo) del finale Alfano II, detto anche Alfano-Toscanini, dal nome del direttore che lo pretese e che mai lo diresse: oltre al danno, la beffa. Prossime repliche 12 e 15 luglio. Foto Brescia & Amisano