XVII Festival Como Città della Musica 2024: “Turandot”

Como, Arena del Teatro Sociale, XVII Festival Como Città della Musica
TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni.
Musica di Giacomo Puccini
Turandot HANYING TSO
Il principe Calaf MAX JOTA
Timur BAOPENG WANG
Liù ALESSIA MEREPEZA
L’Imperatore Altoum DAVIDE CAPITANIO
Ping JUNYEOK PARK
Pong LORENZO MARTELLI
Pang RAFFAELE FEO
Un mandarino FRANCESCO LA GATTUTA
Orchestra 1813
Coro 200.Com
Voci Bianche del Teatro Sociale
Direttore Jacopo Brusa
Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina con Davide Dell’Oca, Eric Foster, Arianna Lodi, Cristina Merlini
Regia e Luci Valentina Carrasco
Scene e Costumi Mauro Tinti
Nuova Produzione Teatro Sociale di Como AsLiCo
Como, 27 giugno 2024
Come ogni anno è con piacere che ci rechiamo all’Arena del Teatro Sociale di Como per il progetto dei 200.Com, un coro amatoriale di più di duecento persone che per un anno prepara un’opera, seguito dai Maestri del teatro cittadino. Rincresce constatare, tuttavia, che probabilmente questo meritorio progetto di educazione alla musica sia in parte sfuggito di mano: quest’anno, per la messa in scena di “Turandot”, una notevole compagine corale si è ritrovata per tutto il primo atto disposta lungo un’estesa passerella, de facto impossibilitata alla vista dei maestri collaboratori e del direttore, e probabilmente per questo con evidenti problemi di coesione, ritmo e intonazione. Per l’anno prossimo ridimensionare il tutto, potrebbe aiutare a ritrovare lo smalto di cui abbiamo goduto nelle altre estati comasche. Anche perché, fatalmente, l’intera produzione di questa “Turandot” raggiunge livelli molto impegnativi, sotto ogni punto di vista, e quindi i limiti emergono maggiormente. Partendo dalla concertazione di  Jacopo Brusa, si fatica ad avanzare una valutazione, poiché l’ensemble che si ritrova a dirigere è drammaticamente ridotto rispetto alle esigenze della partitura, e, per quanto microfonato, si fatica a godere di un suono omogeneo – e il sospetto è che come non la sentissimo noi, neppure il coro riuscisse ad ascoltare bene l’orchestra. Con i cantanti questo problema si pone in maniera minore: tutti sfoggiano una grande propensione scenica e una maggiore sicurezza dell’opera, oltre che voci marcatamente più impostate. Il cast è senz’altro dominato da Hanying Tso (Turandot): una voce imponente, ma capace anche di piegarsi su un bel fraseggio, ricca di armonici e per nulla bidimensionale, che si è evidentemente esercitata sul nostro repertorio a lungo. Accanto a lei ben figura Max Jota, tenore brasiliano dal colore interessante, in grado di sfoggiare un’apprezzabile espressività vocale e sicurezza nell’intera tessitura del ruolo. Peccato per l’eccessiva prudenza sul “Nessun dorma” che l’ha reso un po’ generico – tuttavia senza scivoloni. A rubare la scena ai protagonisti sono stati però Ping (Junyeok Park), Pong (Lorenzo Martelli) e Pang (Raffaele Feo), tre voci solide, perfettamente distinte e ugualmente amalgamate, dai suoni calibrati e belle tinte (chiaro Feo, più robusto e tondo Martelli, non troppo scuro e piacevolmente portato Park): il loro arrivo porta sempre una ventata di freschezza, esattamente come era stato pensato da Puccini; solidissima voce brunita sfoggia pure il giovane Baopeng Wang nel ruolo di Timur, interpretato senza una smagliatura, mentre una prova più alterna offre Alessia Merepeza (Liù): il primo atto è stato incerto, la non facile “Signore ascolta” ha mostrato il fianco a qualche problema di emissione. La situazione migliora nel terzo atto, dove, vuoi per il carattere del personaggio, vuoi per maggiore disinvoltura dell’artista, ascoltiamo una scena e un’aria molto ben interpretate, con voce ricca di armonici e naturalmente vellutata, che vede in “Tu che di gel sei cinta” uno dei punti più alti della serata. Ben interpretati anche i due ruoli di lato di Altoum (Davide Capitanio) e del Mandarino (Francesco La Gattuta, che si distingue anche per singolare vis scaenica). La regia di Valentina Carrasco è esattamente quello che ci aspetteremmo: abbiamo una potentissima contestualizzazione politica (la Cina postmaoista contemporanea o la Corea del Nord), scene di crudo realismo (la tortura ai danni di Calaf durante gli indovinelli, con tanto di testa schiacciata in un secchio pieno d’acqua), la demitizzazione dell’iconico (il pestaggio della popolazione durante il “Nessun dorma”). Tutte cose che abbiamo già visto nelle produzioni della regista argentina; qui, però, troviamo anche degli sviluppi interni alla trama piuttosto interessanti, partendo dal feticismo di Calaf per la figura di Turandot (ingigantita su uno stendardo nel quale il Principe si rotola lubrico) e arrivando alla giustamente agghiacciante scena delle anime dei morti, interpretate da deportati nei campi di rieducazione comunisti, che con il sangue dalle orecchie, i cartelli punitivi al collo e andamento sghembo rotolano dalla scalinata su cui campeggia il ritratto della principessa. Brividi, per una scena da brividi, che invece in genere passa tra un carosello e l’altro del primo Atto. Pure l’uso delle voci bianche, in perfetto stile regime, con tanto di bandiere e stendardi, è perfetto e agghiacciante, così come grottesca e altrettanto accurata la descrizione di Ping, Pong e Pang come funzionari governativi coperti di scartoffie. Insomma, la Carrasco con questa coraggiosa messa in scena ci dimostra che attualizzare è possibile, nel momento in cui si mantengano le intenzioni e le direzioni narrative originarie. Speriamo lo capiscano anche altri suoi colleghi. Foto Andrea Butti