Roma, Teatro Argentina: “Accabadora”

Roma, Teatro Argentina
“ACCABADORA”

dal romanzo di Michela Murgia edito da Giulio Einaudi Editore
drammaturgia Carlotta Corradi
regia Veronica Cruciani
con Anna Della Rosa
luci Gianni Staropoli

Produzione Savà Produzioni Creative, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Roma, 12 Giugno 2024
Da qualche anno, “Accabadora” ha trovato nuova vita come monologo teatrale, magistralmente diretto da Veronica Cruciani. Recentemente, lo spettacolo ha fatto tappa al Teatro Argentina di Roma, presentato fuori cartellone ma riscuotendo un grande successo di pubblico. “Accabadora” di Michela Murgia emerge come un testo che non soltanto narra una storia, ma si immerge profondamente nelle complesse dinamiche delle relazioni umane attraverso la lente della cultura sarda. La narrazione si avvolge attorno alla figura di Maria, l’ultima nata in una famiglia troppo grande per darle attenzioni e cura adeguata. È in questo contesto che entra in scena Bonaria Urrai, una donna avvolta in un’aura di mistero, che adotta Maria non solo per aiutarla, ma anche per seguire un bisogno intimo e profondo di maternità tardiva. Il concetto di “figlialità elettiva” che Murgia esplora nel romanzo è un riflesso acuto delle dinamiche di accettazione e di alienazione, dove la comunità, con le sue voci bisbiglianti e giudicanti, gioca un ruolo chiave nella definizione dell’identità di Maria. Le figure materne in “Accabadora” sono poliedriche: da una parte c’è la madre biologica di Maria, incapace di fornire un ambiente di crescita stabile, dall’altra Bonaria, che offre a Maria una nuova vita ma con un senso di distacco emotivo. La narrativa si addentra poi nelle profondità psicologiche del rifiuto e dell’accettazione. Maria cresce percepita come un “errore”, un sentimento che permea la sua concezione di sé e delle sue relazioni con gli altri. La scelta di Bonaria di non integrare completamente Maria come una figlia “di casa” riflette una profonda comprensione della realtà di Maria come ‘altro’ da sé, un riconoscimento doloroso ma necessario della loro separazione intrinseca. Il personaggio di Bonaria è complesso e contraddittorio. Svolge il ruolo di “accabadora“, una figura tradizionale in alcune comunità sarde, responsabile di concedere una morte misericordiosa agli incurabili. Questa pratica, radicata in un profondo senso di pietà e in una comprensione intima della sofferenza, si contrappone alla percezione esterna di Bonaria come una figura quasi mitologica, oscillando tra il rispetto e il sospetto. Il ritorno di Maria, adulta e cambiata, per accudire Bonaria morente, simboleggia un completo ribaltamento dei ruoli e un apprendimento delle lezioni più profonde su vita, morte, e accettazione. Maria, che per tutta la vita ha lottato contro l’ombra dell’abbandono e del rifiuto, trova nella cura dell’anziana una possibilità di riconciliazione, non solo con Bonaria, ma anche con se stessa. “Accabadora” è un’indagine delicata e intensa sulle ferite nascoste dell’animo umano, sul potere trasformativo della cura e sull’ineludibile ricerca di riconoscimento e appartenenza. Michela Murgia, con uno stile incisivo e sensibile, riesce a tessere un’affascinante rete di relazioni e simbolismi, facendo del testo una meditazione profonda sulla vita e sulla morte, arricchita dalla potente evocazione del paesaggio sardo, che diventa, a sua volta, un personaggio vivente e respirante nella storia. L’adattamento scenico del romanzo “Accabadora” di Michela Murgia, curato da Carlotta Corradi, rappresenta un notevole esempio di come il teatro possa estendere e reinterpretare la letteratura.  Sebbene l’adattamento utilizzi esclusivamente le parole dell’autrice, le impiega in maniere innovative, attribuendo così al testo una nuova dimensione di originalità autoriale. Tuttavia, l’adattamento scenico si confronta con sfide significative legate al trascorrere del tempo, una tematica centrale sia nella regia che nella ricezione dell’opera. La direzione teatrale, orientata a sottolineare la performance solistica di Anna Della Rosa, dimostra un’eccellenza nel rendere autonomia alla recitazione, ma tale scelta non riesce pienamente a liberarsi dalle restrizioni di uno spettacolo che combatte per rimanere attuale. In particolare, le tensioni emergono quando si considera l’evoluzione del discorso sull’immaginario femminile, oggi caratterizzato da una fluidità e un impegno all’emancipazione da legami sessuali, filiali e territoriali che differiscono marcatamente dalle impostazioni più statiche e definite del romanzo. Nello specifico, i personaggi di Maria e Bonaria sembrano ancorati al loro contesto letterario, senza trovare un adeguato senso di urgenza o una rilevanza immediata nel contesto teatrale attuale. Ciò solleva questioni riguardo alla capacità del linguaggio teatrale di attualizzare e trasmettere efficacemente il messaggio originale del romanzo in modo da dialogare con le correnti socio-politiche e religiose contemporanee. In questo senso, la messinscena necessita di un’interpretazione più dinamica e contestualmente rilevante che possa trascendere il testo originario, facilitando un dialogo più incisivo e pertinente con il pubblico odierno. L’adattamento teatrale, quindi, si trova di fronte alla sfida di bilanciare fedeltà e innovazione, cercando di armonizzare la potente narrativa di Murgia con le mutevoli esigenze espressive e tematiche del teatro contemporaneo. Nella messa in scena dello spettacolo, la narrazione e l’evoluzione personale dei personaggi sono magnificamente enfatizzate dalle luci soffuse e multicolori di Gianni Staropoli, che modulano l’atmosfera in perfetta armonia con i cambiamenti emotivi della storia. Il design scenico, che varia di colore in risposta alla drammaturgia intensifica la connessione tra spazio scenico e narrazione. L’incontro con la morte viene evocato attraverso una musica delicata e eterea, che a tratti si contorce in suoni che ricordano rantoli e latrati, suggerendo la tensione e il disagio del momento finale. La resa sonora permette agli spettatori di percepire quasi fisicamente l’affanno del trapasso, evocando persino il tanfo della morte. L’esibizione, nonostante la complessità della trama e l’approccio quasi didascalico, si distingue per la linearità e la precisione nell’interpretazione di Della Rosa, la cui performance è autentica e misurata, senza mai esagerare l’accento sardo. Tuttavia, ciò che sembra mancare sono gli strati più profondi di disperazione, quegli sguardi che potrebbero riflettere pienamente le travagliate vicissitudini di una storia tanto tormentata e di un personaggio così profondamente segnato dalle avversità. Nel romanzo di Michela Murgia, il finale è lasciato alla libera interpretazione del pubblico. Tuttavia, nell’adattamento teatrale, le frasi conclusive pronunciate dall’attrice, avvolta in un manto nero, sono cariche di un’intensità emotiva così potente da guidare inequivocabilmente il pubblico verso un’unica interpretazione del finale. Photocredit@MarinaAlessi