Milano, MTM – Teatro Litta: “Il gioco dell’amore e del caso”

Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2023/24
IL GIOCO DELL’AMORE E DEL CASO”
di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux
nuova traduzione di Michele Zaffarano.
Orgone GAETANO CALLEGARO
Silvia FRANCESCA MASSARI
Lisetta JASMINE MONTI
Dorante FRANCESCO MARTUCCI
Arlecchino FILIPPO RENDA
Adattamento e Regia Antonio Syxty
Scene Guido Buganza
Costumi Valentina Volpi
Disegno luci Fulvio Melli
Nuova produzione Manifatture Teatrali Milanesi
Milano, 24 giugno 2024 – Debutto Nazionale
In fondo, “Il gioco dell’amore e del caso” potrebbe essere il titolo dell’opera omnia di Marivaux, autore del Settecento francese oggi poco frequentato, ma che scatenò in patria una vera forma di isterismo collettivo per corteggiamenti amorosi leggeri e galanti chiamato, appunto, “marivaudage”. Nella non esile produzione di Pierre Carlet (questo il suo nome originario), troviamo sviluppati, indagati ed esasperati quei rituali d’accoppiamento a fine matrimoniale e a sfondo più o meno equivoco, che fin dal teatro di Menandro caratterizzano la commedia occidentale; insomma, per citare un notorio tormentone attuale, “ho visto lei, che bacia lui, che bacia lei, che bacia me”, solo che al posto del “baciarsi” (azione eccessivamente esplicita e triviale, per lo meno in pubblico) si preferiscono azioni come “corteggiarsi”, “scriversi bigliettini”, “farsi promesse nuziali”, e, più di tutto, “alludere”, giacché è evidente che il gioco dell’amore (e rieccolo) si giochi su un campo puramente teorico. Forse è per questo che il marivaudage è un po’ passato di moda, e con esso il suo inventore: viviamo in una società che fatica con l’astrazione, preferendo la chiara manifestazione, teofanica quando non pornografica, del sentimento. In base a tutto ciò non possiamo che apprezzare la scelta di Antonio Syxty di riportare in scena “Il gioco dell’amore e del caso”, commedia tra le più riuscite non solo del suo autore, ma dell’intero secolo XVIII: la nuova traduzione di Michele Zaffarano e l’adattamento dello stesso regista si rivelano fondamentali per snellire la pantagruelica mole di parole del testo, e per modernizzare le dinamiche tra i personaggi di quel tanto che basta a fruirne al meglio. Siamo chiari: la regia di questo testo funziona a meraviglia, anche se forse avrebbe potuto osare qualcosa di più in qualche direzione – tradizione/ innovazione/ contaminazione, a scelta – per sottrarsi a un andamento scenico per lo più prevedibile. Sì, su tutti domina appeso uno scimmione fucsia con una maschera frou-frou nera, indiscutibile elemento pop e kitsch nel senso più godibile, ma poi, de facto, ci troviamo davanti a una messa in scena di prammatica, funzionale ma un po’ sciapa. Non aiuta a dare mordente al tutto nemmeno la scenografia di Guido Buganza, che torna a uno dei suoi grandi classici – la stratificazione di veli bianchi – aggiungendo pochi elementi correttamente d’epoca, in un contesto ove forse qualche guizzo in più, cromatico e di organizzazione spaziale, non avrebbe certo guastato; su una sicura linea tradizionale anche i costumi di Valentina Volpi, che vedono solo nei copricapi una azzeccata scelta fuori dagli schemi (gustosa la parrucca argentata per Orgone); altrettanto accennate e non sfruttate appieno anche le luci di Fulvio Melli. Il cast vede cinque interpreti particolarmente in forma, anche perché il tipo di testo richiede caratterizzazioni piuttosto marcate, per evitare che il pubblico scivoli lentamente nella narcosi. Bravi tutti, con un plauso soprattutto per Gaetano Callegaro (un Orgone gigione al punto giusto e adorabile gran burattinaio dei giovani presenti in casa sua, quasi l’archetipo del demiurgo bon vieillard) e Francesco Martucci, che dimostra come un’interpretazione calibratissima, tra una fisicità sensuale e una vocalità ben sostenuta, riesca sempre a conseguire risultati molto più che buoni; Filippo Renda, nel ruolo di Arlecchino, sceglie un’ipercaratterizzazione senz’altro non peregrina e che sa fare presa sul pubblico, sfruttando anche la naturale inflessione siciliana dell’interprete; fra le prove femminili, Francesca Massari di poco migliore di Jasmine Monti, ma unicamente perche la sua Silvia consente all’attrice di mettere in luce una più vasta gamma di colori, pose, emozioni; la Lisetta della Monti è senza dubbio riuscitissima, ma si rifugia sovente in quelle tipiche cadenze da Settecento accademico che alla lunga un po’ stancano: quando l’interprete perde il controllo di sé è invece più spontanea e apprezzabile. In generale, la sensazione che si prova alla fine di questo “Gioco dell’amore e del caso” è di una dolcezza corroborante, che riesce a tenersi al di qua dello zuccheroso e del retorico, senza snaturare l’essenza stessa di questo tipo di teatro. Un’operazione funambolica non senza rischio, che conclude la stagione delle Manifatture Teatrali Milanesi in leggerezza. Si replica fino al 13/07. Foto Alessandro Saletta