Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – LXXXVI Festival del Maggio Musicale Fiorentino
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma “La Tosca” di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca VANESSA GOIKOETXEA
Mario Cavaradossi PIERO PRETTI
Il barone Scarpia ALEXEY MARKOV
Cesare Angelotti GABRIELE SAGONA
Il sagrestano MATTEO TORCASO
Spoletta ORONZO D’URSO
Sciarrone DARIO GIORGELÉ
Un carceriere CESARE FILIBERTO TENUTA
Un pastorello SPARTACO SCAFFEI
Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino
Coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Maestro del coro di voci bianche Sara Matteucci
Regia Massimo Popolizio
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Pasquale Mari
Nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 3 giugno 2024
È “Tosca” l’ultima opera dell’86° Festival del Maggio, che ha dedicato la quasi totalità della proposta operistica della stagione al genio pucciniano. Il nuovo allestimento è un’ulteriore riproposizione in epoca fascista, probabilmente subito prima della seconda guerra mondiale. Un’ambientazione evidente dalle marmoree costruzioni della Roma dell’E.U.R. di Margherita Palli, che introducono una vicenda dallo sfondo periferico, come lascia alludere la popolare messa in scena degli eventi in chiesa, con un “Te Deum” tutt’altro che monumentale, anzi improvvisato al meglio all’operosità di una qualunque parrocchia di quartiere. D’obbligo, quindi, la semplicità dei costumi delle masse ideati da Silvia Aymonino, con originali reminiscenze dal film “Il conformista” di Bertolucci. Maggiore dettaglio scenico si evidenzia a Palazzo Farnese, dove Scarpia si rivela così macabro da sfoggiare un vero e proprio reliquiario, per poi tornare all’essenzialità delle forme sulla sommità di Castel Sant’Angelo. La scenografia risulta, però, piuttosto controversa se rapportata alle altrettanto discutibili scelte di Massimo Popolizio, che congegna una regia “cinematografica”. Lo si vede dall’insistere su azioni simultanee con diversi accadimenti, anche incompatibili, entro uno stesso spazio non opportunamente delimitato. È come se il regista immaginasse una cinepresa che inquadra ora questo o l’altro particolare dell’azione, ma dalla platea il colpo d’occhio d’insieme è inevitabile e rischia di generare alcune incongruenze. Eclatante, in tal senso, l’inserto dei bambini che giocano tranquillamente a campana nell’area carceraria di Castel Sant’Angelo, il ritardo nell’uscita di Angelotti (non dalla cappella!) rispetto all’arrivo del sagrestano o gli scambi confidenziali dei due amanti, collocati a troppa distanza per non essere uditi dall’antagonista. Spesso il libretto fa da freno alla regia, che si concentra sul dettaglio dell’azione e sull’approfondimento dei singoli, più che sugli scambi interpersonali. Così, Tosca brilla di un magnetismo consapevole e indiscusso, risultando sensuale in chiesa al limite dell’irrispettoso, mentre a Cavaradossi spetta la pacatezza del fidanzato di lunga data, che “sa come prenderla”, e che non dà troppo peso agli attacchi di gelosia, né conta sulla finale illusione salvifica. Dubbie anche le luci di Pasquale Mari, la cui trovata d’annunciare Scarpia ingigantendone l’ombra sulla calda parete di fondo viene stemperata quando lo stesso accade al rientro di Tosca. Sorprendente, invece, la personale lettura di Daniele Gatti, che guida l’abile orchestra giocando su un’intenzionale flessibilità dell’agogica: tempi scorrevoli, per la continuità dell’azione, resi con descrittiva purezza di suono, e dilatazioni ritmiche ad hoc. Si nota come tali rallentamenti non siano perlopiù imputabili a dubbio gusto, ma valorizzabili nell’ottica di enfatizzare i numerosi “ritardi” di cui Puccini intride la partitura e che concorrono a sollevare quel retrogusto di musica sacra che la pervade. Questa impostazione non trascura un’analitica attenzione al particolare, come nell’esecuzione dell’intreccio di quarte e quinte che evocano le suggestioni dei suoni d’organo sulla “Recondita armonia” o nella singolare restituzione in diminuendo della scansione delle campane nel mattutino, in cui si riscontra giusto un po’ di timidezza nel marcare il Mi grave del “Campanone”. Non mancano le attenuazioni dinamiche di sfondo alla sottile tela drammaturgica, né i risvegli di sonorità degni di un “Te Deum” d’effetto, che può ancora una volta contare sul rilevante contributo del coro di Lorenzo Fratini e sulle voci bianche di Sara Matteucci. A questo proposito, un plauso va a Spartaco Scaffei per il breve, ma corretto, apporto come pastorello, visto che difficilmente si riesce a sentire tali strofe cantate con sicurezza. In linea col regista, la Tosca di Vanessa Goikoetxea ha scenicamente tutta la carica attrattiva della celebre protagonista, spiccatamente logorata dalla gelosia o vaneggiante nelle proprie prefigurazioni ed è supportata da uno strumento vocale particolarmente duttile su piano e smorzamenti, capace di fraseggiare con accurata volubilità. Pur distinguendosi nel piglio dell’afflato d’amore, il soprano non supera altrettanto agilmente la trappola delle frequenti puntature a piena orchestra, su cui i suoni passano con buon volume, ma a costo di aspre forzature timbriche e con intonazione sporadicamente calante. Al suo fianco, Piero Pretti si dimostra un tenore più lirico-leggero che lirico, poiché il timbro s’impone con maggiore luminosità nello squillo degli acuti, lasciando più nell’ombra la proiezione delle numerose frasi di centro, caratterizzate da un’emissione meno compatta. La voce impiega del tempo per giungere a regime, causando qualche difficoltà iniziale nel passaggio, ma converge verso un Mario disilluso e sicuro di sé, a cui si auspica di poter evolvere con un maggiore scavo di fraseggio e dinamico. Nell’iconico ruolo di Scarpia, Alexey Markov presenta qualche disomogeneità nell’appoggio delle vocali e incappa in alcune incertezze di dizione. La difficile resa psicologica del personaggio conta più sulla presenza di accenti marcati e severi o di frasi dissimulate a gran velocità, che sulla melliflua resa di mezze voci o impeti di particolare prevaricazione, ma nel complesso il suo è un carattere monocromaticamente di ferro, volto unicamente a bramare la cosa perseguita per saziarsene. A capo dei ruoli “secondari”, Gabriele Sagona si aggira con fare circospetto negli interventi del primo atto, ben figurando la fosca preoccupazione dell’esule, mentre Matteo Torcaso è un sagrestano tanto partecipativo quanto intimorito. Chiudono il cerchio le battute di Oronzo D’Urso (concitato Spoletta), Dario Giogelé (torvo Sciarrone) e Cesare Filiberto Tenuta (sbigottito carceriere). La serata si chiude col convinto l’applauso del teatro del Maggio, ancora una volta al completo. Foto Michele Monastra