di Davide Daolmi
Collana: Biblioteca di testi e studi
Volume di 300 pagine. ISBN: 9788829021574
Roma, Carocci editore, 2024
€ 33,00
Il Prologo (Fortuna Imperatrix Mundi), tratto dalla cantata scenica di Carl Orff Carmina burana: Cantiones profanae cantoribus et choris, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis, sottolinea quanto la fortuna sia il motore del mondo, visto che quest’opera nel 1981, quando diventa la colonna sonora del film Excalibur, raggiunge l’apice della notorietà. Siccome la fortuna è mutevole ecco che, a comprendere le diverse fasi alterne, ci pensa Davide Daolmi con il volume sui Carmina Burana il cui sottotitolo chiarisce molti aspetti. Per l’autore, professore associato di Storia delle teorie musicali e Storia della musica medievale e rinascimentale all’Università Statale di Milano, il Codex Buranus (XIII sec.) e i Carmina burana (1935-1936) di Orff (che utilizza solo 24 componimenti poetici in prevalenza latini e non la musica del codice) viaggiano su due binari paralleli e, pur non incontrandosi, in alcuni tratti fa percepire all’orizzonte la loro apparente convergenza.
Tesi dello studioso: se il Codex «si fonda sulla capacità di attivare la memoria», la cantata «ha reso viva la memoria del passato, di un manoscritto, di un repertorio, di una società che non esiste se non negli studi eruditi». La differente immaginazione attuale della monodia medievale, secondo Daolmi, è possibile grazie ad «un’alternativa credibile al canto salmodiato […] concepita nel 1937 […] che ha mostrato come la forza del latino medievale poggi i suoi fondamenti sul ritmo del corpo, sulla capacità di seduzione, su un cantare che, come manifestazione di vitalità, rifiuta l’apatia controllata del presente». Egli non trascura nulla, scandagliando ogni aspetto delle opere. Oltre a descrivere le caratteristiche del Codex specifica che delle 250 liriche soltanto una cinquantina sono corredate di notazione adiastematica; ne ricostruisce la diffusione, dal ritrovamento (1803) nella Biblioteca di Benediktbeuern all’attribuzione italica degli anni ’80 del ‘900 con la compilazione a Novacella, oltre al luogo ov’è custodito, gli ambienti (corti, università, ecc.) e relativi esecutori, restituendo un Medioevo diverso da quello dell’immaginario collettivo.
Pur «non occultando il modello monastico cui provengono i Carmina Burana», ecco la dimostrazione di «quanta pluralità d’idee circolasse in questi anni [ove] i componimenti rivelano un entusiasmo per la vita che appare lontano dal Medioevo “sofferto” cui siamo abituati». Descrivendo Ludo cum Cecilia (sezione amatoria), per esempio, Daolmi si sofferma sul termine quintum specificando che «rimanda cioè alla teoria dei cinque gradi dell’amore, altre volte detta “pentagramma d’amore”, di cui lo stesso Codex offre una spiegazione in esametri [in cui si palesa la seguente successione]: sguardo, conversazione, contatto, bacio e sesso».
Il volume contiene la prima pubblicazione Carmina Burana (1874), a cura di J. A. Schmeller e le trascrizioni di W. Lipphardt che portarono alcuni gruppi di musica antica a realizzare le prime incisioni. Apparentemente può sembrare un lavoro per studiosi – grazie alla chiarezza espositiva, la presenza di molte Figure esplicative con esempi musicali, di testi, ecc. – ma non deve scoraggiare il lettore non esperto perché apre alla curiositas. Ecco la struttura del volume: dopo l’Introduzione seguono 4 capitoli intercalati da Intermezzi: 1. Orff e il suono del Medioevo – Intermezzo I. Il manoscritto e la sua storia 2. Storia e geografia musicale del Codex Buranus – Intermezzo II. Goliardi, poeti e trovatori; 3. Forme e contrafacta – Intermezzo III. Dal ritmo al metro e viceversa; 4. Medievalismi di oggi; Bibliografia; Indice analitico.
Talvolta l’autore fornisce precisazioni: «Parlare […] di “suono medievale” significa intraprendere una strada pericolosa: chiunque sa che la musica dei Carmina Burana di Orff non ha nulla a che fare con il Medioevo, e che ammettere che la composizione ha avuto un ruolo nella costruzione del moderno immaginario sonoro medievale obbliga a rivedere alcune categorie», dimostrando anche certi arbìtri verso la musica antica o accuse e ricostruzioni faziose mosse nei confronti di Orff considerato, già dalla prima esecuzione (1937), vicino al regime nazista.
Restando alla silloge di canti del Codex, a Daolmi non manca il coraggio di affrontare lo spinoso problema di come viene restituita questa musica già a partire dalle prime interpretazioni evidenziandone la difficoltà oggettiva nel ritenerle autentiche. L’interrogativo per la musica del Medioevo è il seguente: com’è possibile ricostruire, avendo solo una serie di note associate al testo, ed ‘inventare’ ritmi, armonie, ecc. fidandosi di realizzazioni moderne non sempre attendibili?
Dalle edizioni del 1964 e ‘67 dei Carmina realizzati dallo Studio der frühen Musik (dir. Thomas Binkley), dalle diverse versioni del Clemencic Consort (dir. René Clemencic) e quella del New London Consort (dir. Philip Pickett) la musicologia, dagli anni ’80 in poi del secolo scorso, ha voluto avvicinarsi con più circospezione. Mi limito solo a segnalare le opinioni feroci di A. Planchart e di una certa critica versus Clemencic. Significativo che dal lavoro del New London Consort in poi, secondo Daolmi, si susseguano incisioni dei Carmina in cui, tranne i seguenti gruppi: Alegria, Boston Camerata e La Reverdie, «il confronto con le fonti è azzerato».
Invito a leggere e a riflettere sui contenuti di questo libro interessante ove, in alcuni passi, sembra ricordare il monito guidoniano «Musicorum et cantorum magna est distancia…».