Roma, Teatro Vascello
LA RAGAZZA SUL DIVANO
di Jon Fosse
traduzione Graziella Perin
regia Valerio Binasco
con Pamela Villoresi, Valerio Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramonte e con Isabella Ferrari
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
suono Filippo Conti
video Simone Rosset
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Palermo
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di Colombine
Teaterförlag
Roma, 16 Aprile 2024
Jon Fosse, drammaturgo, romanziere e poeta norvegese nato nel 1959, si afferma come una figura cardine della drammaturgia contemporanea. La sua opera si caratterizza per una struttura narrativa frugale e uno stile distintivo, attraverso il quale esplora con profondità il disagio umano generato dalle barriere comunicative in vari contesti sociali e personali. Le opere di Fosse, che prendono vita sul palcoscenico a partire dal 1994, si districano tra silenzi carichi e dialoghi essenziali, rivelando le sfide della comunicazione nell’epoca moderna. I suoi personaggi, spesso delineati attraverso poche, incisive battute, riflettono la lotta interiore contro l’indifferenza che permea le relazioni umane, esplorando tematiche come la fragilità dei rapporti di coppia, il divario generazionale, e la percezione della morte. Anche in questo dramma “La Ragazza sul divano” portato in scena al Teatro Vascello è evidente il suo stile, intenzionalmente anemico e afasico che riflette la scelta di una comunicazione ridotta all’essenziale. Questa piece , priva di una struttura convenzionale e con una “punteggiatura” spesso assente, costringe , così, lo spettatore a confrontarsi con l’essenzialità del testo e la potenza del non detto. Le ispirazioni di Fosse derivano da una vasta gamma di fonti, tra cui la musica rock, la pittura e un ascolto profondo delle voci marginalizzate, con un forte senso di incertezza. La trama si dipana attraverso due filoni principali: da un lato chi ricorda e osserva, e dall’altro chi è ricordato e osservato, entrambi legati al quadro incompiuto al centro della storia. Il dialogo costante tra passato e presente scandisce lo spettacolo, in cui la protagonista affronta la sua giovane versione, intensamente interpretata da Giordana Faggiano. La giovane appare frequentemente assorta su un divano, avvolta in un’aura di malinconia dovuta alla costante assenza del padre marinaio, le cui rare comunicazioni arrivano sotto forma di cartoline da lontani porti. La trama si arricchisce ulteriormente con la presenza di personaggi che orbitano attorno alla protagonista, tra cui il marito, Valerio Binasco, che non riesce a placare il tormento di lei, e Isabella Ferrari, nei panni di una madre nevrotica che intraprende una relazione con Michele Di Mauro, lo zio delle ragazze. Completa il quadro familiare la sorella maggiore, interpretata da Giulia Chiaramonte, il cui dinamismo sensuale aggiunge una vivace complessità alla narrazione. Sul palco si è distinta una compagnia di attori straordinari, ciascuno con un notevole talento e una partecipazione intensa, sotto la sapiente regia di Valerio Binasco. Al centro dello spettacolo, una riflessione pronunciata dalla protagonista svela la complessità degli eventi: «Succede. Perché si vede una cosa e poi non si riesce più a scordarla». Queste parole aprono una finestra sul tema del tradimento materno, suggerendo che potrebbe essere la chiave degli intricati drammi personali, ma ponendo anche il dubbio se sia davvero il fulcro delle difficoltà della donna a “essere brava a vivere” o solo un pretesto per le sue insufficienze esistenziali. Le dinamiche sul palco, caratterizzate da interazioni non convenzionali tra i personaggi del presente e quelli del passato, si traducono in un complesso gioco di echi e rimandi che intensificano l’eco emotivo delle loro storie. La protagonista, con una sorta di rassegnazione filosofica, afferma: «In un certo senso anche la vita è un’eternità». In questa visione, il tempo emerge come il vero protagonista dello spettacolo, ma non come un flusso liberatorio bensì come una gabbia paralizzante, una prigione da cui sembra impossibile evadere. La realtà viene percepita come immutabile, un eterno ritorno dell’uguale che condanna i personaggi a ripetere gli stessi schemi dolorosi. Di fronte a potenziali vie di fuga dalla monotonia esistenziale — come l’accettazione dell’amore di un uomo innamorato o la riconciliazione con la madre morente — la protagonista opta per un rifiuto sistematico e coerente. Questa scelta non solo accentua la sua alienazione e solitudine ma consolida anche il carattere tragico della narrazione, in cui le possibilità di redenzione o cambiamento vengono deliberate e ripetutamente respinte, sottolineando un fatalismo profondamente radicato nel tessuto della rappresentazione. L’ambiente scenico dello spettacolo è magistralmente delineato dalla scenografia innovativa di Simone Rosset, che introduce un elemento dinamico e visivamente suggestivo. Rosset ha realizzato un fondale che si trasforma progressivamente con i colori di un dipinto in via di elaborazione. Questo quadro, visibile attraverso un sottile telo trasparente, non solo evoca le linee di una camera da letto ma diventa anche un elemento vivente della scena. Per effetto delle luci e delle trasparenze, la parete ora assume l’aspetto del quadro che la protagonista sta dipingendo, ora si dissolve come un velo che rivela un altro spazio scenico. In questi momenti di delirio artistico, i colori sembrano quasi uscire dalla tela per aggredire la donna, creando un intenso gioco di realtà e immaginazione. Parallelamente, la presenza di un giradischi sul palcoscenico introduce una dimensione musicale che si affianca e si intreccia al testo teatrale. La scelta di brani come “You Don’t Own Me” di Lesley Gore e, verso il finale, una canzone di Lou Reed, non solo arricchisce l’atmosfera ma anche approfondisce il dialogo tra i temi musicali e la narrativa visiva. Il design delle luci, magistralmente curato da Nicolas Bovey, assume un ruolo fondamentale nell’intensificare le tensioni emotive dello spettacolo. L’illuminazione concepita da Bovey fa più che semplicemente rischiarare la scena: penetra gli angoli più reconditi delle psiche dei personaggi e trascende le tradizionali dimensioni spaziali di altezza, larghezza e profondità, impreziosendo la messa in scena con una dimensione fisica che evoca i ricordi, il rimpianto e il fluire inesorabile del tempo. Al termine dello spettacolo, il pubblico ha risposto con un applauso forte e partecipativo. PhotoCredit:VirginiaMingolla