Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
I MANEGGI PER MARITARE UNA FIGLIA
di Nicolò Bacigalupo
con
Tullio Solenghi, Elisabetta Pozzi, Stefania Pepe, Laura Repetto, Isabella Loi, Federico Pasquali, Pier Luigi Pasino, Riccardo Livermore, Roberto Alinghieri
scene e costumi Davide Livermore
trucco e parucco Bruna Calvaresi
regia Tullio Solenghi
prodotto da Teatro Sociale Camogli, Teatro Nazionale di Genova, Centro Teatrale Bresciano
Roma, 02 Aprile 2024
“Maneggi per maritare una figlia” (I manezzi pe majâ na figgia) è una commedia in dialetto genovese scritta da Niccolò Bacigalupo e successivamente adattata per la televisione nel 1959 da Vittorio Brignole, con le memorabili interpretazioni di Gilberto Govi e Rina Gaioni nei ruoli principali. La trama si snoda attorno alle vicissitudini di Stefano, soprannominato Steva, un commerciante genovese di spezie e beni coloniali, e della sua famiglia. Steva vive in un contesto familiare turbolento, contrassegnato dalle continue dispute con la moglie Luigia, detta Giggia, soprattutto riguardo al futuro matrimoniale della loro figlia nubile, Matilde. Le tensioni domestiche sono esacerbate da questioni quotidiane come l’assenza di bottoni nei vestiti di Steva, simbolo della negligenza domestica mentre madre e figlia si dedicano allo shopping nel centro città. La narrazione prende una svolta quando la famiglia si trasferisce nella loro villa per il fine settimana, dove si intrecciano gli affetti e le aspirazioni amorose dei vari personaggi. Matilde è attratta da Riccardo, figlio di un ricco senatore romano, e tale interesse sembra essere ricambiato. Tuttavia, la situazione si complica con l’arrivo di Cesare, innamorato di Matilde, e di altri personaggi che porteranno a equivoci e scontri familiari. Nonostante le macchinazioni di Giggia per favorire l’unione tra Matilde e Riccardo, percepita come vantaggiosa economicamente, la verità emerge: Riccardo è interessato a Carlotta, cugina di Matilde, e non a quest’ultima. La rivelazione porta a un climax di malintesi e accuse, culminando in un lieto fine inaspettato dove i veri sentimenti e le sincere intenzioni vengono alla luce. La commedia si conclude con un monito morale di Stefano: nel prendere decisioni sul futuro matrimoniale dei propri figli, è essenziale lasciarsi guidare da cuore e ragione, piuttosto che da avidità e interesse economico, sottolineando così i valori di autenticità e integrità nelle relazioni familiari e amorose. Nella sua interpretazione e direzione artistica dedicata all’opera di Gilberto Govi, Massimo Solenghi ha dimostrato una notevole affinità culturale e intellettuale con il famoso drammaturgo, grazie anche alle sue radici genovesi. L’attore ha approfondito l’essenza dell’opera di Govi, riconoscendola molto più che una semplice commedia dialettale. Egli ha evidenziato come Govi abbia saputo creare un personaggio emblematico, dotato di un proprio universo simbolico e narrativo, paragonabile a figure iconiche della commedia dell’arte come Arlecchino o Pulcinella. Questa interpretazione ha richiesto dunque una lettura attenta e rispettosa dei codici e delle convenzioni che definiscono il carattere, evitando qualsiasi tentativo di modernizzazione che avesse potuto snaturarne il significato originale. Questa produzione teatrale ha rappresentato , quindi, un autentico viaggio nel tempo, trasportando il pubblico direttamente nel 1959, un’epoca che ha ospitato una delle rappresentazioni più memorabili di Govi. Sin dall’apertura del sipario, è evidente l’impegno profuso nella fedeltà storica e artistica: gli spettatori si trovano di fronte a una scena che replica con meticolosità gli interni dell’epoca, con una cura ossessiva per ogni dettaglio. Dalle riproduzioni di opere d’arte, quali “La ragazza con l’orecchio di perla” e una veduta settecentesca del porto di Genova, fino alla scelta degli arredi e alla loro disposizione, tutto concorre a ricreare l’ambiente che Govi aveva magistralmente descritto nelle sue commedie. La palette di colori, dominata da sfumature di grigio e viola pallido, è stata scelta per evocare le atmosfere delle prime trasmissioni televisive, stabilendo un ponte emotivo e visivo con l’era della televisione nascente. Attraverso questo esercizio di precisione storica e dedizione artistica, Solenghi non solo rende omaggio alla figura di Govi ma invita anche il pubblico contemporaneo a riscoprire e valorizzare la ricchezza culturale e la profondità tematica delle sue opere, mostrando come queste continuino a parlare al cuore e alla mente anche a distanza di decenni. Davide Livermore alle prese con scene e costumi ha colto il pubblico di sorpresa. Livermore, noto per aver aperto la stagione della Scala in quattro occasioni e per le sue scenografie audaci – che includono treni a grandezza naturale e scenari acquatici estesi su tutto il palco – ha questa volta optato per un approccio di rigore filologico, senza rinunciare a quelle “libertà” nell’allestimento scenico che lo hanno reso celebre. Questa scelta si riflette nell’attenzione meticolosa ai dettagli, sia nel trucco che negli abiti, replicando con precisione l’originale fino alle più minute peculiarità di parlata e gestualità. La capacità di Elisabetta Pozzi di incarnare Rina Govi, sfruttando la sua formazione genovese, e la performance di giovani attori che evocano le figure storiche della commedia con straordinaria somiglianza, contribuiscono a rendere l’esperienza teatrale unica. Il resto del cast esibisce una notevole versatilità interpretativa, evidente nella gamma di personaggi delineati con maestria scenica. Stefania Pepe, nel ruolo di una serva cinica, imprime al suo personaggio una gravità che sfida la tradizionale bidimensionalità del ruolo. Laura Repetto e Isabella Loi portano in scena una delicata seduttività, dosando con abilità la frivolezza e la sensualità pudica. Roberto Alinghieri, vestendo i panni di Venanzio, offre una rappresentazione di spessore, la cui intensità interpretativa si concretizza in una performance da considerarsi eccezionalmente espressiva e ricca di pathos. Nel momento finale dello spettacolo, un omaggio commovente all’attore principale arricchisce la narrazione con l’aggiunta di una scena creata appositamente: l’improvviso arrivo di un pacco da un zio d’America, precisamente da Buenos Aires, che contiene una radio nuova. Quando questa viene accesa, le luci si attenuano delicatamente e la voce di Barba Gildo (lo zio Gildo, un affettuoso soprannome genovese per Govi) si leva nell’aria, interpretando “Ma se ghe penso”, la canzone dialettale che simboleggia il profondo legame degli emigrati genovesi con la loro città natale. Il pubblico, perfettamente sintonizzato con il ritmo dello spettacolo, ha applaudito con grande partecipazione e consenso decretandone il successo.