Milano, Teatro Elfo-Puccini, Stagione 2023/24
“GIORNI FELICI”
di Samuel Beckett
Traduzione Gabriele Frasca
Winnie ELENA RUSSO ARMAN
Willie ROBERTO DIBITONTO
Regia Francesco Frongia
Scene e costumi Ferdinando Bruni
Luci Roberta Faiolo
Suono Lorenzo Crippa
Produzione Teatro dell’Elfo in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di Curtis Brown Group Ltd
Milano, 07 aprile 2024
Altrove ci siamo espressi (non senza un tocco polemico) in maniera assai cauta circa le possibilità dell’opera beckettiana oggi, in riferimento ad “Aspettando Godot“. La medesima perplessità, naturalmente, dovrebbe sorgerci per “Giorni felici“, anzi: considerata la natura assolutamente antiteatrale di questo testo, occorre partire, nel giudicarne la realizzazione, proprio da questi limiti oggettivi e dalla loro possibile ricezione presso il pubblico contemporaneo. Tuttavia, c’è un aspetto che “salva“ “Giorni felici“, ossia il fatto che fin dalla sua prima pubblicazione esso abbia rivelato in pieno tutte le caratteristiche del pezzo di bravura per attrice, caratteristiche che, inevitabilmente, l’altro testo non possiede. In poche parole: mentre in “Aspettando Godot“ il talento degli attori sembra passare del tutto in secondo piano, in “Giorni felici“ esso si rivela l’unico cardine su cui si possa imperniare una messa in scena. Ecco, allora, che la scelta dell’interprete di Winnie diventa essenziale e il regista si deve riscoprire pedagogo teatrale, se intende lasciare davvero la sua firma sullo spettacolo. Arriviamo, dunque, alla produzione del Teatro dell’Elfo di Milano correntemente in scena: essa rispetta chiaramente questi due fondamentali, portando in scena il talento adamantino e rutilante di Elena Russo Arman, interprete certamente più a suo agio col drammatico che col comico, ma che nel ruolo grottesco e tentacolare della vecchia Winnie si riscopre ultrasfaccettata, generosa nel darsi e ancor più nel ritrarsi, capace di intessere una rete di silenziosi rimandi all’interno dell’ intreccio più grande di luoghi comuni e ripetizioni ossessive concepito da Beckett. Francesco Frongia, dal canto suo, vuole calcare la mano sul grotesque e sull’aspetto intimamente kitsch di tutta la pièce – vane e stucchevoli quelle produzioni che ne vogliono invece sottolineare i valori, la trappola dell’incomunicabilità ed altre amene sciocchezzuole pseudointellettuali: “Giorni felici” appartiene molto più al kitsch, inteso nella sua forma più alta, postmoderna (arbasiniana, per intenderci), che al teatro dell’assurdo tout court cui i critici vogliono sempre relegarlo, e vivaddio Frongia l’ha capito, e in sana combutta con Ferdinando Bruni crea una scena da cartoon americano Anni Sessanta, con nuvole attaccate con lo scotch e colori lisergici, cui manca solo un roadrunner di passaggio. Winnie è la regina di questo cattivo gusto così pop, bionda bambola senza fascino, si lava i denti, si annusa le ascelle, si preoccupa della cofana che ha in testa, e intanto sciorina versi degli elisabettiani assieme a ricordi zuccherosi e discorsi mortiferi. Il ruolo mostruoso di Winnie è pericolosamente affine a certi ruoli di Tennessee Williams (Alma di “Estate e fumo”, Amanda de “Lo zoo di vetro”, persino Violet di “Improvvisamente, l’estate scorsa”), e come loro la protagonista di “Giorni felici” è un vulcano in costante eruzione, per questo è inglobata in un monte dalla vita in giù: ella stessa è un’esplosione, di rimorsi e rimpianti, di scuse e accuse, di vita. Il finale, dunque, non va preso in maniera tragica, ma con la leggerezza che ha contraddistinto tutta la magnifica, impeccabile prova della Russo Arman: si muore un po’ tutti i giorni, non solo in quel giorno specifico cui assistiamo; la metateatralità è tale che ci rassicura il finale di questi “Giorni felici”, augurandoci un po’ di pace per la cara Winnie e il caro Willie – a proposito: Roberto Dibitonto è l’efficace interprete di un personaggio tanto complesso che alcune produzioni pavidamente eliminano, riducono a voce registrata; bene Frongia che, invece, ce lo regala come il testo vuole, insondabile relitto postumano cui anche il linguaggio risulta inutile, paradossale specchio della moglie, implacabile mascolino sempre a cavallo tra oppresso e oppressore. Lo spettacolo in sé è questo spasmodico anelito di pace, paradossalmente incarnato nella paralisi delle nostre coscienze (Winnie), a loro volta sottratte a un sistema di valori putrescente (Willie); la vera sorpresa è che lo spettatore non possa smettere di guardarlo per un secondo. Repliche fino al 21 aprile. Foto Laila Pozzo