Chi è Elena Russo Arman e com’è arrivata al Teatro dell’Elfo?
Penso che ognuno di noi sia in continua evoluzione. Non ho mai amato guardarmi indietro, soprattutto non mi identifico con la mia storia. Potrei dirle che ho iniziato per caso a fare l’attrice, la mia vocazione era legata all’arte, alla scenografia, ma poi Luca Ronconi ha aperto la sua scuola di recitazione al Teatro Stabile di Torino, la mia città, e per gioco ho fatto il provino. Sono stata fortunata a incontrare maestri straordinari che mi hanno subito mostrato un’altezza, un livello molto elevati. Giovanissima ho iniziato a lavorare e mi sono imbattuta in uno spettacolo degli Elfi. Li ho amati subito. Ho sentito che il loro lavoro risuonava in me e ho sentito il desiderio di far parte di quel progetto. Ci siamo riconosciuti e da allora non ci siamo più lasciati. Dopo tanti anni il mio ruolo all’interno della compagnia ovviamente si è evoluto, ma è come una grande famiglia e sono ancora felice di farne parte.
C’è un’attrice che la ha ispirata, che ammira più delle altre?
Credo che, come d’altronde accade per tutte le altre arti, sia un po’ riduttivo limitarsi al proprio campo. Non penso che sia necessariamente un’attrice a ispirarmi, solo perché io sono un’attrice. Io sono ispirata da tutto (artisti/e, registi/e, musicisti/e, filosofi/e, scrittori/e). L’ispirazione di cui penso di aver bisogno non sta tanto nel cosa fa qualcuno, ma nella visione più ampia con cui qualcuno opera o ha operato. Si impara anche dalle persone più giovani, ad esempio, non solo da chi ci ha preceduto, perché è importante confrontarsi con un nuovo modo di vedere il mondo. L’anno scorso, a Parigi, ho visto una mostra su Sarah Bernhardt: ecco, lei mi ha ispirata enormemente, per l’ampiezza della sua esistenza, per la quantità di ambiti e interessi in cui si è mossa e che, sicuramente, avranno nutrito la sua arte.
Quale produzione/quale ruolo le ha dato maggiore soddisfazione, sia sul piano professionale che su quello umano?
Come ho già detto non amo guardarmi indietro, sono sempre nel presente e, a volte, sono costretta a essere anche nel futuro! E il presente attuale è estremamente felice per me perché quest’anno sono stata coinvolta in due dei progetti tra i più esaltanti della mia carriera. Ho iniziato la stagione con I corpi di Elizabeth di Hella Hickson, diretto da Elio De Capitani e Cristina Crippa, uno spettacolo nel quale interpreto Elisabetta I in una veste transfemminista e moderna [qui la nostra recensione, ndr]. Questo personaggio mi ha dato la possibilità di esplorare e lavorare sulla mia maturità, sia quella attoriale che quella esistenziale, e sono felice che il lavoro andrà ancora avanti. In questi giorni, invece, sono Winnie in Giorni felici di Samuel Beckett con la regia di Francesco Frongia [qui la relativa recensione, ndr]. Dico “sono” perché è un ruolo che ti si incolla addosso tanto è profondo, insinuante e ci parla di qualcosa di molto intimo. Ogni sera recito col corpo costretto all’immobilità e ogni sera, mentre dico quel che dico, ho delle continue epifanie. È uno di quei rari preziosi casi in cui senti che hai un dialogo continuo con chi ha scritto quel che stai dicendo. È un personaggio/non personaggio, da cui mi sento attraversata. Ringrazio molto Francesco che mi ha proposto di farlo insieme.
Da alcuni anni accosta al lavoro di attrice anche quello di regista. Come affronta questi diversi ruoli, e ad oggi quale dei due sente esserle più vicino?
Sono ruoli intercambiabili e molto più vicini di quanto non si immagini. Avere dei miei progetti mi ha dato modo di essere molto libera in alcune scelte stilistiche, artistiche, mi ha dato modo di esplorare nuovi linguaggi e nuovi modi di agire la scena, come nel caso di La mia vita era un fucile carico, il mio spettacolo su Emily Dickinson. In alcuni sono stata anche autrice, ma nella maggior parte dei casi è stata un’occasione preziosa per lavorare con nuove drammaturghe, in particolare Valentina Diana, con cui ho fatto La palestra della felicità, e Magdalena Barile che ha scritto per me Gentleman Anne. Nei miei lavori, inoltre, do sfogo anche al mio primo amore, la scenografia, che per me è sempre totalmente connessa con il progetto. Quando dirigo sono meno interessata al mio ruolo di attrice all’interno dello spettacolo.
L’Elfo è un teatro dalla vocazione dichiaratamente inclusiva e queer. In quanto donna, tuttavia, sente che nella sua carriera ha subito trattamenti diversi o ingiusti rispetto ai suoi colleghi uomini? E più in generale, pensa che la condizione femminile nel teatro italiano sia soggetta a discriminazione o si tratta più di un safe space?
Sono stata fortunata a lavorare con una compagnia che è sempre stata sensibile a tematiche queer e inclusive, e non posso dire di essermi sentita discriminata in quanto donna. Ma devo dire che sono molto grata ad Amleta [associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, ndr] che, in questi ultimi anni, sta mettendo in luce il fatto che pochissime donne, nel teatro italiano, ricoprano ruoli importanti, di potere, se vogliamo usare questo termine antipatico.
Ultima domanda: potesse realizzare un sogno nel cassetto professionale, quale sarebbe? E personale?
Non ho sogni nel cassetto, non irrealizzabili almeno. Ho dei desideri che spero di riuscire a realizzare. Ma ce n’è uno che probabilmente resterà un sogno, il che non è male però perché è bello vivere di astrazioni qualche volta. Vorrei tanto poter fare uno spettacolo usando solo degli automi progettati da me! Un sogno personale, invece, è più difficile da immaginare. Io sono molto grata alla vita che ho, sento che mi assomiglia, che mi corrisponde e temo che non tutti possano dire lo stesso.
Foto Laila Pozzo