Torino, Teatro Regio: “La fanciulla del west”

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e balletto 2023-2024
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma “The Girl of the Golden West” di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Minnie JENNIFER ROWLEY
Jack Rance GABRIELE VIVIANI
Dick Johnson ROBERTO ARONICA
Nick FRANCESCO PITTARI
Ashby PAOLO BATTAGLIA
Sonora FILIPPO MORACE
Trin CRISTIANO OLIVIERI
Sid / Billy Jackrabbit  EDUARDO MARTÍNEZ
Bello e Harry ALESSIO VERNA
Joe ENRICO MARIA PIAZZA
Happy GIUSEPPE ESPOSITO
Larkens TYLER ZIMMERMAN
Wowkle KSENIA CHUBUNOVA
Jake Wallace GUSTAVO CASTILLO
Josè Castro ADRIANO GRAMIGNI
Un postiglione ALEJANDRO ESCOBAR
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Valentina Carrasco
Scene Carles Berga e Peter van Praet
Costumi Silvia Aymonino
Luci Peter van Praet
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 22 marzo 2024 (prima rappresentazione)
La fanciulla del West è un’opera d’azione. Puccini, che mai cedette alle lusinghe del mondo del cinema, con questo titolo costruì una sorta di western per il teatro d’opera, ispirandosi ai ritmi della nascente cinematografia. La melodia, rispetto ai titoli precedenti, risulta alquanto sacrificata, e ciò rende la Fanciulla meno popolare e un po’ ostica per il grande pubblico, se confrontata con le opere più celebri del compositore lucchese. La sfida, per chi sceglie di interpretare questo titolo, è di rispettarne la natura senza far scomparire la vena lirica che attraversa le vicende dei personaggi e senza sacrificare la loro psicologia. La regista Valentina Carrasco ha scelto di ispirarsi al mondo del cinema western, e in particolare ai film italiani di Sergio Leone; anzi, ha portato sul palcoscenico un set cinematografico, e una comparsa che incarna lo stesso Leone, immaginando la vicenda come la ripresa di un film. Anche se in alcuni passaggi non è chiaro il significato del confine tra finzione cinematografica e realtà di vita dei personaggi/attori (ad esempio, perché Johnson ferma le riprese prima di intonare «Ch’ella mi creda»?), la drammaturgia risulta ben delineata, soprattutto grazie all’affascinante ricorso ai primi piani (ripresi dalle videocamere e proiettati su uno schermo appeso al boccascena) che valorizzano la psicologia dei personaggi assai più di un’azione spesso convenzionale. Due momenti in questo senso memorabili sono stati la canzone di Wallace e la scena della partita a poker. Le scenografie di Carles Berga e Peter van Praet coniugano a loro volta caratteristiche teatrali e cinematografiche, e riescono nel duplice intento di essere palesemente finte e al contempo spettacolari nel loro realismo. Dunque, è stato centrato l’obiettivo di portare in scena un’idea originale senza scontentare gli spettatori più tradizionalisti. Sul fronte musicale si è rilevata qualche criticità in più. La partitura, va detto, è particolarmente complessa, non molto gratificante per gli interpreti, che hanno poche occasioni di espressione solistica, e difficile da gestire per il direttore (anche Francesco Ivan Ciampa lo afferma, nell’intervista pubblicata sul programma di sala), in ragione di un’orchestrazione densa e di un fitto gioco di sfumature che danno salienza ai singoli momenti drammatici. La componente sinfonica è stata messa in risalto a dovere, così come ha brillato il Coro (a ranghi solo maschili), che si è reso protagonista di un’eccellente pagina di impressionante veemenza in apertura del III atto: le compagini del Regio sono sempre una garanzia. Quando però si è trattato di far emergere le scene individuali, si è avuta l’impressione che molto finisse per essere appiattito in una massa sonora che sacrificava le sfumature espressive, dinamiche e cromatiche. Anche alcune scene, come il litigio tra Rance e Sonora nel I atto, che dovrebbero stagliarsi con una certa nettezza, finivano per essere sommerse nel tessuto orchestrale. E, nei confronti tra i protagonisti, una certa insistenza sullo stile del canto “di conversazione” ha rischiato di sacrificare oltremodo il lirismo e la poesia che pur dovrebbero caratterizzare la partitura, quanto meno nei duetti tra Minnie e Dick e nell’addio finale. Occorre dire che lo strumento del soprano Jennifer Rowley (Minnie) non è il più adatto per dare risalto cromatico al ruolo della protagonista: la linea di canto risulta alquanto discontinua, con centri di proiezione limitata e acuti stridenti che conferiscono al personaggio un’aura espressionista estranea alla poetica pucciniana. I suoi passi meglio riusciti sono stati i confronti con Rance, e in particolare quello più acceso al termine del II atto, nel quale la forza dell’accento è predominante sulla bellezza del suono. Decisamente più convincente è stato il tenore Roberto Aronica nel ruolo di Dick Johnson: in lui l’impostazione stentorea non si è mai disgiunta da una buona ricerca cromatica, ritraendo in maniera credibile il bandito dall’animo sensibile, indurito dalle avverse vicende della vita. Il baritono Gabriele Viviani è perfetto, sia scenicamente sia vocalmente, per dar vita alla figura disillusa dello sceriffo Jack Rance, al quale non è richiesto involo lirico, ma un accento che oscilli, con varie gradazioni, tra l’amaro e il sarcastico. E più che appropriata è parsa la lunga schiera di seconde parti. Se ne vogliamo menzionare due, senza fare alcun torto agli altri, diciamo il Nick del tenore Francesco Pittari, espressivo e non privo di sfumature cromatiche, e il bandito José Castro del basso Adriano Gramigni, perspicuo nell’uso della parola scenica. Ma è giusto ricordare tutti con onore: Paolo Battaglia (Ashby), Filippo Morace (Sonora), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid e Billy Jackrabbit), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Ksenia Chubunova (Wowkle), Gustavo Castillo (Jake Wallace), Alejandro Escobar (Un postiglione). Al termine dello spettacolo, convinti applausi per tutti: segno che, al di là di qualche imperfezione esecutiva, il pubblico ha saputo apprezzare questo titolo, relativamente raro, di un Puccini alla ricerca di nuove vie per il teatro d’opera. Foto Daniele Ratti