Firenze, Teatro Maggio Musicale Fiorentino: stagione 2023-2024 gennaio-marzo
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Vitali Alekseenok
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Soprano Nikoleta Kapetanidou
Contralto Aleksandra Meteleva
Tenore Dave Monaco
Basso Alessandro Abis
Johann Sebastian Bach/Anton Webern: dal Musikalisches Opfer BWV 1079 Ricercata, fuga a 6 voci; Gioachino Rossini: “Stabat Mater” per soli, coro a 4 voci miste e orchestra
Firenze, 29 marzo 2024
Il concerto di venerdì scorso diretto da Vitali Alekseenok (ultimo dei quattro giovani direttori presenti nella Stagione) corrisponde all’evento musicale della Settimana Santa in cui si percepiva un fil rouge con il programma del 16 marzo ove era presente il wagneriano Incantesimo del Venerdì Santo dal Parsifal. Pubblico numeroso e quasi desideroso di ascoltare musiche che incuriosivano e probabilmente auspicavano una ventata di novità, la medesima percepita dalla presenza in platea del nuovo sovrintendente Carlo Fuortes. L’inizio con la Ricercata, fuga a 6 voci dal Das Musikalisches Opfer BWV 1079, nella versione weberniana, costituiva un invito ad entrare nel misterioso e severo carattere in cui il principio contrappuntistico imitativo permea la partitura. Nella composizione, accanto alle ‘ombre’, grazie al bel suono dell’orchestra, si sono percepiti anche i bagliori schoenberghiani del terzo dei Fünf Orchesterstücke, op. 16, Farben (colori) basato sul principio della melodia dei timbri (Klangfarbenmelodie) così come l’espressione più penetrante della scrittura di Webern. Agli strumenti è affidato il compito di congiungere i differenti suoni del tema in una successione in cui, pur ravvisando una certa frammentazione tematica, si vuole affermare la diversità che porta all’unità, rintracciabile anche nella partitura bachiana scaturita dal Thema Regium (concepito dal re Federico II il Grande) e a lui dedicata. Ad assolvere il ruolo di ‘guida’ era proprio l’articolato e granitico tema, ben riconoscibile già dall’incipit caratterizzato dalla successione di 4 suoni ascendenti: do, mib, sol, lab per poi precipitare al si naturale, come è evidente dalla prima esposizione (inizialmente il trombone enuncia il tema che continua nella versione parcellizzata in cui partecipano corno, tromba, ecc.). Si richiedeva l’unitarietà d’intenti e un attento ascolto agli strumenti, al direttore di entrare in sintonia con l’atteggiamento mentale di entrambi i compositori in cui, di fronte alla diversa versione, è rintracciabile l’auctoritas del Kantor. Il risultato conseguito ha evidenziato un buon equilibrio architettonico anche se, in alcuni momenti, il venir meno della fluidità del discorso faceva fatica a svelare il tessuto che unisce l’opera. Con lo Stabat Mater (testo attribuito a Jacopone da Todi) si rimane ancora nel concetto dell’ ‘offerta’. Pur con il trascorrere del tempo, ancora oggi si sente l’eco della perplessità da parte del pubblico e della stampa che già dalla première parigina (7 gennaio 1842) divide costoro dai fautori dell’opera rossiniana. Una fonte del 7 novembre 1841 annuncia un Rossini che sembra «volerci introdurre in una nuova maniera, […] come il bardo inspirato che ci vuol rivelare tutti i dolori della madre di Cristo». Tra i 10 numeri che costituiscono la struttura dell’opera non sfuggono termini come “aria”, “duetto”, “cavatina”, ecc., che indicano i tratti formali caratteristici del melodramma tanto da indurre qualche perplessità con la sequenza di Jacopone. Tuttavia l’inizio, quasi sinistro, dei fagotti e violoncelli, il successivo reiterato e tormentato motivo dei violini I che esplode nel fortissimo a tutta orchestra con la linea cromatica discendente degli archi e legni (ma anche in altre situazioni dell’opera), l’intonazione del testo (coro e solisti) esprimono tutta la drammaticità: «Stabat Mater dolorosa/justa crucem lacrymosa, /dum pendebat Filius». Rossini da un lato sembra riesumare figure retoriche come la circulatio, il passus duriusculus, la syncopatio o la suspiratio, inequivocabili nel dichiarare il dolore della Madre e di un’umanità disorientata, dall’altro si allontana da certi clichés settecenteschi legati al colore del fa minore o degli archi come nelle versioni di Vivaldi, Cafaro, Boccherini e Pergolesi, partitura quest’ultima che Rossini conosceva. Egli proietta l’inventio verso una maggiore varietà (espressione delle innovazioni stilistiche e formali) avvalendosi di un organico più ampio con un quartetto di voci soliste, un coro misto, l’orchestra formata da una coppia di legni, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani e il classico quintetto d’archi. Nel Cujus animam gementem l’aria tripartita del tenore poteva far storcere il naso, come nell’Ottocento, sia per l’andamento ritmico che per la tonalità (la bemolle maggiore) o il duetto delle voci femminili in Quis est homo qui non fleret sarebbe considerato musica di altro genere diversamente da altri numeri come i nn. 5 e 9 cantati a cappella o l’Amen del Finale in cui, scegliendo la forma della fuga, Rossini ritorna all’antico. Di ottimo livello le voci soliste, con l’eccellenza soprattutto del soprano, in cui sembrava di ascoltare quella «vocalità artificiosa, che poggia su figure anodine proprie della musica strumentale: scale, arpeggi, roulades, quartine ascendenti e discendenti che si inseguono con meccanica iterazione dentro schemi di calcolata simmetria» (Zedda); straordinari gli interventi del coro per la ricchezza sonora, la perfetta intonazione, l’incisività del pathos grazie alla profonda conoscenza della partitura e al raffinato lavoro del loro maestro, Lorenzo Fratini. Ottima anche la prestazione dell’orchestra, sempre molto duttile e alla ricerca di un’espressività rispettosa del testo. In questo quadro la direzione del giovane direttore bielorusso rappresentava un altro modo di leggere lo Stabat Mater, lavoro non semplice da dirigere nel far convergere le diverse componenti dell’opera. Se a qualcuno, probabilmente, saranno mancate certe nuances tipiche della tradizione italiana, per altri erano proprio tali assenze ad avvicinarsi alla “nuova maniera” (quella che valica il confine tra i generi) di una composizione in cui «Rossini [viene] innalzato al merito dei più grandi compositori di musica di chiesa», parola di Fétis.