Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2023/4
Violino e violoncello da spalla Sergey Malov
Béla Bartók: Unisono (da “Mikrokosmos”), per violoncello solo; Johann Sebastian Bach: Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012, per violoncello solo, Toccata e Fuga in re minore, BWV 565 (arr. per violino solo); Béla Bartók: Sonata per violino solo
Firenze, 2 marzo 2024
Si può assistere ad un concerto lasciandosi attrarre dal virtuosismo ma talvolta si può anche essere folgorati dallo stupore. Nell’appuntamento del 2 marzo scorso, molti dei presenti sembravano predisposti a cogliere entrambe le caratteristiche. Solista, alle prese con un programma particolare, Sergey Malov, musicista originario di San Pietroburgo. Egli è apparso sul palco con uno strumento dalle dimensioni individuabili tra una viola e un violoncello, appoggiato sul petto e sostenuto da una piccola tracolla, denominato violoncello da spalla. Oltre a suscitare curiosità nel pubblico, ne svelava la rara presenza nelle programmazioni concertistiche. Per ammirare questo strumento occorre affidarsi all’iconografia musicale, più in particolare ad artisti come Andrea Celesti o Jan Brueghel, o a qualche trattato come il Syntagma musicum (II tomo del De organographia, 1619) di Michael Praetorius, che ne testimonia la diffusione nei secoli XVII-XVIII. Venendo al concerto, Malov ha interpretato quattro composizioni: nella prima parte ha suonato il violoncello da spalla, mentre nella seconda si è esibito in qualità di violinista. Ascoltandolo per la prima volta colpisce il suo coraggio e il saper ‘osare’ così come il passare da uno strumento all’altro con una naturalezza incredibile, grazie alla sua natura di polistrumentista, confermata da un corposo curriculum (premi, collaborazioni significative, incisioni, ecc.), ove si dichiara che sappia suonare anche il violino barocco e la viola. Sentirlo ‘navigare’ tra Barocco e Novecento assumeva la dimostrazione che lo strumento è solo un ‘arnese’ per eseguire la musica e, soprattutto in certi repertori antichi (Barocco compreso), attraverso l’arte della trascrizione e dell’arrangiamento, è possibile eseguire opere strumentali indistintamente dalla scrittura idiomatica come accade per molti lavori di Bach. Dopo la brevissima composizione di Bartók (quasi breve introduzione per captare l’attenzione) tratta dall’opera pianistica Mikrokosmos, è stata la volta della Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012 che, stando a quanto riportato in un autografo di Anna Magdalena Bach è definita Suitte 6me a cing acordes, sembrerebbe da eseguirsi con un violoncello da spalla dotato delle seguenti corde (dal basso: do, sol, re, la, mi) ove si evince l’aggiunta di una quinta all’acuto (mi). Lo straordinario virtuosismo di Malov, concentratissimo nell’esecuzione della Suite, evidenziava altresì un’assidua frequentazione con questo strumento che, pur ‘antico’ parente degli strumenti ad arco, destava meraviglia nel sentirlo suonare a questo livello. Dal I movimento (Preludio) all’ultimo (Giga) c’era Bach con tutte le sue architetture, le arditezze armoniche, le vivide polifonie compresi effetti eco, abbellimenti ecc. che è possibile ascoltare solo da musicisti dotati di eccezionali capacità.La celeberrima Toccata e Fuga in re minore BWV 565, arrangiata e suonata con il violino, per molti una sorpresa, è stata l’ulteriore occasione per ribadire che la musica di Bach può essere eseguita quasi con ‘ogni sorta di stromento’ restandone immutato il pensiero compositivo. Pur rispettando la natura dello strumento, l’arrangiamento violinistico riusciva a restituire le peculiarità di quest’opera concepita per organo fin dall’inizio caratterizzato dall’abbellimento (mordente sul grado della dominante). Anche per quest’interpretazione non si può tacere la maestria del musicista nell’evidenziare ogni elemento della scrittura unitamente al controllo e alla bellezza del suono ove, in alcuni momenti, sembrava di poter ascoltare l’effetto ‘eco’, solitamente eseguito sui manuali dell’organo. La Sonata per violino solo, commissionata a Bartók da Yehudi Menuhin, ha concluso il programma rivelando una propria natura complessa e difficile. Il ritorno al binomio Bach & Bartók era talmente gradito che, per molti aspetti, sembrava un autentico dittico in cui, pur considerandone la distanza temporale, era pur sempre possibile rintracciare un intarsio tale da immaginare una coppia di icone. In questo contesto il compositore ungherese, una delle personalità più originali ed influenti del Novecento, appariva il grande ‘apostolo’ della tradizione e il difensore del logos musicale bachiano. La Sonata (pur aderendo nel I movimento alla forma-sonata), nella sua architettura e stile (si noti l’incipit con il Tempo di ciaccona o la Fuga), strizza l’occhio a quelle bachiane. Similmente, inoltre, per l’utilizzo della forma polifonica, siamo di fronte al paradigma della fuga. Inizialmente l’attenzione del pubblico era catturata da certe allusioni alla musica popolare ungherese, in seguito vi è stata un’immersione nel microcosmo bartokiano grazie all’ascolto di tutto il ‘vocabolario linguistico’ di Bartók. Mediante l’uso delle doppie corde (per la cavata possente), in alcuni momenti sembrava di ascoltare un Quartetto, mentre nell’ultimo movimento (Presto) la varietà del materiale compositivo e la chiara restituzione dell’interprete evidenziavano una lettura espressiva caratterizzata da tante idee musicali. Ma se ogni idea rappresenta un pensiero o un’attività della mente volta a partorire quella vera ed eterna, il ritorno a Bach nel fuori programma, con il triste ed elegiaco Largo dalla Sonata 3 BWV 1005, dedicato alla memoria di Alexei Navalny, ne è stato un esempio.