Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2023-2024
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot LEAH GORDON
L’imperatore Altoum RAFFAEL FEO
Timur, re tartaro spodestato GIACOMO PRESTIA
Il principe ignoto Calaf ANGELO VILLARI
Liù, giovine schiava JAQUELINA LIVIERI
Ping, grande cancelliere FABIO PREVIATI
Pang, gran provveditore SAVERIO PUGLIESE
Pong, gran cuciniere MATTEO MEZZARO
Un Mandarino BENJAMIN CHO
Prima ancella HAOYOUNG YOO
Seconda ancella ELEONORA NOTA
Principe di Persia ALFONSO COLOSIMO
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Coro Lirico di Modena
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Voci bianche del Teatro Comunale di Modena
Direttore Marco Guidarini
Maestro del Coro Corrado Casati
Maestro delle Voci bianche Paolo Gattolin
Direttore Marco Guidarini
Regia, coreografia, scene e luci Giuseppe Frigeni
Ripresa di Marina Frigeni
Costumi Amélie Haas
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Teatro Galli di Rimini.
Allestimento Teatro Comunale di Modena
Modena, 17 marzo 2024
È sempre lei, la Turandot, col suo Finalino secondo del povero Alfano bacchettato dalla bacchetta più bacchetta del secolo (assai più fragrante, a unanime giudizio, è la sua prima versione), e persino con quel consuetissimo interventino di micro-chirurgia le cui ragioni restano tuttavia insondabili sulla frase dei ministri “Ne abbiam visti arrivar degli aspiranti! O quanti! O quanti!”. Con l’ottima Toscanini in buca e il Maestro Marco Guidarini sul podio c’è tutto quello che ci deve essere: manca forse la magia. I colori cangianti e fascinosi di questo seducente e mitico notturno, luccicante di esotismo fiabesco. Insomma l’orchestrazione inarrivabile dello stregone Puccini, un manto sfumato e fuggevole che si posa (e si porta) su tutto, e che non ha rivali nemmeno in campo francese. Giuseppe Frigeni imprime allo spettacolo una pulizia di design: sicché spazza via ventagli variopinti, lanternucole e lacche rosse che infestano gli allestimenti cosiddetti tradizionali, ma con quelli sparisce anche qualcosa che dell’opera, piaccia o meno, è. Restano però, dell’usurato apparato di stereotipi che il titolo si porta dietro, i passettini e le mossette da macchietta orientale (che presto il politicamente corretto ci farà rimpiangere): ma difficilmente possono bastare come risposta visiva alla crescente pompa musicale fra primo e secondo quadro dell’atto secondo. Rinunciataria la scelta di relegare il coro (anzi i cori: Coro Lirico di Modena più Coro del Teatro Municipale di Piacenza, il Maestro è Corrado Casati) ai margini della scena, in fila per due (senza resto). Scena che si compone di una vasta scalinata la cui porzione centrale può scorrere verso il fondo scena rivelando, nel primo atto, le teste mozzate degli incauti contendenti (assai belle ed efficaci, ispirate forse all’esercito di terracotta che il primo Imperatore Qin, il muragliaro, si fece forgiare per portarselo nell’Aldilà) e poi, nel terzo, il cadavere di Liù, che resta significativamente in scena sino alla fine. Rispettata, purtroppo, anche l’abitudine di piazzare la protagonista quanto più in alto e lontano possibile sulla scena, fatto che penalizza la resa della bella voce di Leah Gordon, dai centri assai ben timbrati, ma talvolta troppo sbrigativamente sguinzagliata nel registro acuto. Solidità encomiabile invece quella di Angelo Villari, con un mezzo vasto e squillante, qua e là opacizzato forse da una leggera stanchezza. È un tenore di forza bruta, che può puntare sulla spettacolarità muscolosa di una voce grande più che su sfumati giochi di dinamiche e mezzevoci: ma che può supplirvi con una ricerca cromatica. Dal suo accento, dal suo fraseggio, si tradisce appassionato e rimuginante ascoltatore dei vecchi dischi amati da tutti i vociomani del mondo. Jaquelina Livieri, Liù, ha voce dal timbro tenero e dolce, come si conviene al personaggio, e una corposità vocale che è forse meno consueta per il ruolo, e tuttavia graditissima. Adombrato dai piccoli inconvenienti delle recite dal vivo quel “sorriso” ricevuto da Calaf un dì, nella reggia di Timur. Timur di grande lusso con Giacomo Prestia che come tutti i grandi indossa la boccoluta parrucca da Mosè e fa rivivere i fasti del suo glorioso, sontuoso, pastoso mezzo vocale. Impegnati in un intricato tessuto coreografico e contemporaneamente nelle loro parti vocali sono i tre personaggi la cui statura non viene mai debitamente riconosciuta: stiamo parlando nientepopodimeno che del Grande Cancelliere Ping, Fabio Previtati, del Gran Provveditore Pang, Saverio Pugliese, e del Gran Cuciniere Pong, Matteo Mezzaro: tre buone voci, la prima forse la più interessante nonostante piccoli segni di usura. Forse non sembra, ma in quest’opera uno scoglio sommerso che incute terrore ad ogni accorto ascoltatore (e Direttore Artistico) c’è, ed è il ruolo di Altoum. Più che ardua, la scrittura è scomoda, tale da produrre spesso e volentieri esiti ridicoli: ma non qui, dove la parte è risolta con grande e solida dignità da Raffaele Feo. Completano il cast il Mandarino di Benjamin Cho e le due ancelle Haoyoung Yoo e Eleonora Nota. Foto Rolando Paolo Guerzoni