Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2023/2024
“GUILLAUME TELL”
Opéra in quattro atti su libretto di Étienne de Jouy e Hippolyte Louis-Florent Bis
Musica di Gioachino Rossini
Guillaume Tell MICHELE PERTUSI
Arnold Melcthal DMITRY KORCHAK
Walter Fürst NAHUEL DI PIERRO
Melcthal EVGENY STAVINSKY
Gessler LUCA TITTOTO
Rodolphe BRAYAN ÁVILA MARTINEZ
Leuthold PAUL GRANT
Ruodi DAVE MONACO
Mathilde SALOME JICIA
Jemmy CATHERINE TROTTMANN
Hedwige GÉRALDINE CHAUVET
Un chasseur HUANHONG LI*
*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Chiara Muti
Scene Alessandro Camera
Costumi Ursula Patzak
Luci Vincent Longuemare
Coreografia Silvia Giordano
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 26 marzo 2024
Tell è opera che dà alla testa. Primo lavoro parigino originale da capo a piedi e ultimo per il teatro, entra nel mito prima che nella storia: è l’opera bifronte, che chiude una stagione e ne inaugura una nuova. Poche storie, però: Rossini resta un Classico, senza macchia e senza Neo. Rivoluzionario lo ha voluto da subito la propaganda risorgimentale, quando invece, “reazionario se non addirittura codino e comunque certamente opportunista” (Giudici), la rivolta di popolo ce la deve mettere perché è tanto di bon goût, e quanto era piaciuta ai parigini, l’anno passato, ne La muette de Portici. In effetti, in questo “grandioso Poema Sinfonico sulla Natura” (Isotta), gli Svizzeri oppressi sono il popolo secondo Natura e gli Austriaci oppressori il popolo contro Natura: sicché la rivolta è volontà di ritornare all’ordine naturale delle cose. Quello, insomma, che c’era già prima: “Liberté, redescends des cieux, / Et que ton règne recommence!”. Che Carlo X, re paladino della Restaurazione, rientrasse, al pari del ruscello, della nuvoletta e della capretta, nell’ordine naturale delle cose, è, anche questo, naturale.
E allora è chiara l’idea di Chiara Muti: di cosa ci dobbiamo liberare per ricongiungerci alla Natura, se non degli schermi luminosi in cui, più o meno consapevoli e consenzienti, riversiamo le nostre vite? L’impostazione fondamentale è più che corretta: illuminante. Il guaio è che a questa traccia se ne sovrappongono altre, finché lo spettacolo non prende una pericolosa piega biblica: Gessler è il demonio, sua corte sono le allegorie dei sette peccati capitali, la mela è il frutto proibito e l’albero è quello edenico della conoscenza. Molta, troppa carne al fuoco, che col suo fumo offusca la narrazione. Un peccato (capitale?): perché il preziosissimo lavoro sulla recitazione, al di là delle prime file di platea, finisce per perdersi, ma c’è, ed è anche di grande valore, e la movimentazione delle masse è eccellente. Fatto più che fondamentale in un Grand-Opéra di quattro ore e mezza con il Coro quasi sempre in scena, e con Mimi e Allievi della Scuola di Ballo (quando il Corpo di Ballo non c’è, gli Allievi ballano) impegnati nelle coreografie, perfettamente amalgamate alla regia, di Silvia Giordano. Lo spettacolone allora è mastodontico, come è giusto e bello che sia: nelle scene di Alessandro Camera sei palazzi a tre piani praticabili si combinano in varie posizioni su una doppia piattaforma girevole, rivelando nel terzo atto il troneggiante albero della conoscenza, e nel finale un fondale di cascate, il cui effetto è raddoppiato da una cortina di tripoline. Metropolis come riferimento visivo è un bel limite, essendo in bianco e nero, anche per i costumi carcerari di Ursula Patzak, che ha potuto sbizzarrirsi solo con i sette peccati capitali. Alla Scala gli spettacoli oscuri sono oramai una vera specialità della Casa; ma qui un uso sapiente del fumo e le luci magistrali di Vincent Longuemare sono riusciti a dare profondità all’oscurità. Il protagonista assoluto, mattatore impareggiabile sulla scena e nelle orecchie, è il venerabile Michele Pertusi. Su quel poderoso ma luminoso mezzo vocale la parola trionfa con il suo significato in un fraseggio calibratissimo, prodigo di sfumature, ma non pensoso, non intellettualistico: quasi istintivo, spontaneo, naturale. Perfetto per lo stile declamatorio francese. Formidabile, infatti, è il suo Sois immobile, come lo era il suo monologo di Filippo II (purtroppo non in francese). Curiosamente: in entrambi i casi ha vinto, nella prassi, il violoncello solista, benché sia scritto per l’intera sezione (cose possibili solo con le prove infinite dell’Opéra). L’altro Michele, Mariotti, guida l’orchestra scaligera verso inusitate vette di virtuosismo tecnico, riscuotendo ovazioni da stadio. È un lavoro minuzioso e capillare, il suo: sulle dinamiche anzitutto, e su certe minime oscillazioni interne al tempo soprattutto. Lavoro in cui è coinvolto, e in prima linea, il “Corissimo” scaligero di Alberto Malazzi, al solito superlativo. L’effetto è un continuo palpitare, un continuo rinnovarsi della tensione che innerva la frase musicale. Il che rende l’ascolto una delizia, con punte di massima suggestione nelle danze. Nella direzione come nella regia, però, la maniacale attenzione al dettaglio lascia talvolta sfuggire il disegno complessivo, la composizione architettonica: come un quadro fiammingo, che non si sa da quale magnifico, sorprendente dettaglio incominciare a guardare. Secondo solo a Pertusi è Luca Tittoto con il suo Gessler esemplare, dall’accento gravido d’inventiva, dalle sfumature infinite, e accompagnato da una grande recitazione. Annunciato indisposto, ha invece cantato brillantemente Dmitry Korchak nell’impervio ruolo di Arnold. La sua qualità principale, oltre ad uno squillo argenteo e folgorante, è una straordinaria omogeneità su tutti i registri. Quella, forse, che ricercava Gilbert-Louis Duprez con l’espediente della cosiddetta “voix sombrée”, pratica esecrabile in risposta al dilagare della quale Adolphe Nourrit, haute-contre dal falsettone leggendario e star assoluta del Grand-Opéra, si sarebbe gettato dalla finestra. La parte era stata scritta per lui (e con lui) da Rossini, che “amava il falsettone, di cui sembra fosse personalmente abilissimo” (Celletti), mentre invece considerava “urlo del cappone che si sgozza” il famigerato “do di petto” di Duprez: e, si sa, di capponi, come di tenori, se ne intendeva.Mathilde, ruolo dal canto legatissimo e spianato, ma che, così senza tagli, non trascura infiorettature d’agilità, è Salome Jicia: cantante solida e affidabile, dà qui una bella prova che tuttavia non va al di là di un’alta professionalità. L’ottima Catherine Trottmann è un Jemmy brillante e dalla straordinaria disinvoltura scenica; accenti significanti e opportuni arricchiscono il timbro scuro e femminile di Géraldine Chauvet nel ruolo di Hedwige. Melcthal è un Evgeny Stavinsky in forma, più sonoro in questa che in altre occasioni, dalla voce che pare irrobustirsi e arricchirsi di armonici; mentre il Walter di Nahuel di Pierro, ottimo per dizione francese, ha voce di grande morbidezza nei centri, ma mostra delle disomogeneità di emissione e sonorità. Prove positive per Dave Monaco nell’acutissima e antipatica parte di Roudi, e Brayan Ávila Martinez nell’ambigua scrittura di Rodolphe; solido e sonoro, Paul Grant appiana certe sue ruvidità d’accenti. Magnifico il sontuoso cacciatore di Huanhong Li. Questa terza recita è stata accolta da un successo generale con ovazioni per Mariotti, Pertusi e Korchak, mentre la prima rappresentazione è stata accompagnata e conclusa da una serie del tutto sproporzionata di contestazioni che, duole dirlo, erano forse rivolte più alla persona della regista che al suo lavoro; e principale capo d’imputazione era l’esser figlia di suo padre. Colpa, per verità, comune a tanti. Repliche fino al 10 aprile. Foto Brescia & Amisano