Milano, Piccolo Teatro Strehler, Stagione di prosa 2023/24
“LA LOCANDIERA”
di Carlo Goldoni
Mirandolina SONIA BERGAMASCO
Ortensia MARTA CORTELLAZZO WIEL
Il cavaliere di Ripafratta LUDOVICO FEDEDEGNI
Il marchese di Forlipopoli GIOVANNI FRANZONI
Il conte di Albafiorita FRANCESCO MANETTI
Servitore GABRIELE PESTILLI
Dejanira MARTA PIZZIGALLO
Fabrizio VALENTINO VILLA
Regia Antonio Latella
Drammaturgia Linda Dalisi
Scene Annelisa Zaccheria
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Milano, 25 febbraio 2024
La produzione del “Piccolo“ di Milano de “La locandiera“ di Goldoni solleva alcuni punti interrogativi, cui non siamo certi di poter rispondere, né che sia compito del ponderoso programma di sala scioglierli. Ma non servono forse a questo le grandi produzioni, cioè a porci davanti grandi quesiti? Tendenzialmente sì, anche se preferiremmo che queste domande riguardassero ciò che è fuori dalla scena e non ciò che vi vediamo rappresentato. Leggendo anche solo la pagina web dello spettacolo, sul sito del teatro, il primo interrogativo riguarda l’effettiva ragione che dovrebbe spingere qualcuno a leggere nel testo goldoniano una (cito testualmente) “grande operazione civile”, quando è da circa trecento anni che vi leggiamo “semplicemente” (giacché e cosa tutt’altro che semplice) uno dei massimi esempi di commedia borghese di epoca moderna. Ad escludere la lettura “civile” legata allo women empowerment, che già negli anni Settanta si era proposta, è la natura profondamente conservatrice non solo del teatro goldoniano, ma dell’esperienza intellettuale e di vita dell’autore stesso (zelante collaboratore dell’ancien régime, caratterizzato da una visione del rapporto tra i sessi come una “partita da vincere”, probabilmente non del tutto soddisfatto, ma ineludibilmente prono ad essa, come si evince in molte tra le opere più celebri – ad esempio le due “Trilogie”, “Il ventaglio” e proprio “La locandiera”). Eppure, evidentemente, per la dramaturg Linda Dalisi e il regista Antonio Latella questa lettura è riduttiva – non ci spingeremo a dire “erronea” – e non sufficiente per calcare di nuovo le scene (si parla chiaramente di “mediocrità” dei contemporanei nei confronti del testo). Lo spettacolo cui assistiamo, dunque, somiglia più a una specie di Ibsen che a Goldoni, in special modo nella prima parte, cioè fino allo svenimento di Mirandolina; la seconda ritrova un certo brio contemporaneo, un po’ à la Woody Allen, ma tutto sommato godibile, fino alla scena finale, con una Mirandolina di spalle al pubblico e, infine, quasi affranta, stremata da una fatica di vivere che, onestamente, in Goldoni non c’è. Il resto è per lo più trovate registiche di Latella, a volte più riuscite (tutta la gestione del Marchese, ad esempio) altre meno (baci omo e chitarra suonata, entrambi fuori contesto). Tutto è pervaso da un senso di attesa, come se qualcosa di altro, fuori dal testo e dalla scena, debba accadere: una tensione, una leggera frenesia che però, in fin dei conti, si risolve con un nulla di fatto, giacché questa sottile angoscia è evidentemente posticcia, è una chiave di lettura che non apre il testo a nuove prospettive, ma semplicemente gliele impone come meglio può. La scena di Annelisa Zaccheria, pure, è algida, minimale, così come i costumi contemporanei di Graziella Pepe, non belli, né apparentemente pensati davvero; le luci di Simone De Angelis sono senz’altro la parte più interessante di questa messa in scena: a loro il merito di rendere credibile la scelta registica, ricreando sovente atmosfere rarefatte e soffocanti, di sicuro effetto. Per il resto la produzione, svuotata com’è della forza testuale, si regge sul solido ed indiscutibile talento degli interpreti, a cominciare da Sonia Bergamasco, capace di passare in un momento dal ritmo della commedia a un’impressionante profondità; in lei tutto è fluido e potente, controllato e incisivo; per lei è venuta la maggior parte dei presenti in sala e non tradisce minimamente le aspettative, riconfermandosi una delle migliori interpreti nel nostro Paese. Accanto a lei, tuttavia, il resto del cast si difende bene, a partire dalle altre due attrici, Marta Pizzigallo e Marta Cortellazzo Wiel nei ruoli comico-grotteschi di Dejanira e Ortensia, cui è demandato il compito di strapparci qualche sorriso; l’altro personaggio che mantiene una qualche vis comica è il Marchese di Forlipopoli, ben incarnato in Giovanni Franzoni, che riesce con maestria a scivolare tra le gag mantenendo una ancor più comica seriosità; certo anche la prova di Ludovico Fededegni è notevole: l’amarezza e la difficoltà d’amare del Cavaliere di Ripafratta in lui vengono esaltate, e l’attore ne cava una interpretazione acuta, raffinata, forse alla lunga un po’ stucchevole, ma senza dubbio coinvolgente; similmente si potrebbe dire del Conte d’Albafiorita di Francesco Manetti, per quanto più bidimensionale. Gli attori che ci hanno più colpito per misura e presenza scenica, oltre all’aderenza ai personaggi, sono Gabriele Pestilli, nella parte del servitore del Cavaliere, e, soprattutto, Valentino Villa come Fabrizio, che riesce a trarre il suo personaggio dalle letture limitate che se ne danno, per regalarci in primis un uomo, non una macchietta buffa, e nella fattispecie un uomo seriamente innamorato. Il pubblico in sala non dà segni di effettivo piacere o meno, ma è evidentemente disorientato: lo si capisce dal fatto che i pochi che ridono, ridono non per quello che effettivamente avviene in scena, ma per quello che si aspetterebbero avvenisse – una sorta di risata della forca, nervosa, più che liberatoria. Sul finale grandi applausi per Sonia Bergamasco, meritatissimi come sempre. A noi resta solo un quesito: quand’è che certo teatro Teatro (con la “t” maiuscola, cui Latella indiscutibilmente appartiene), la smetterà di accanirsi sul pubblico disorientandolo, e tornerà in pace con esso? Foto Gianluca Pantaleo