Venezia, Teatro La Fenice: Alpesh Chauhan interpreta l’Ottava di Bruckner

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Alpesh Chauhan
Anton Bruckner: Sinfonia n.8 in do minore WAB108 (versione 1890, revisione Leopold Nowak)
In occasione del 200° anniversario della nascita di Anton Bruckner
Venezia, 23 febbraio 2024
L’ultimo decennio della vita di Bruckner è segnato da un progressivo affermarsi della sua musica sia in America – Theodore Thomas dirige a New York la Settima Sinfonia – sia in Europa: in particolare, nell’“ingrata” Vienna, dove Hanslick elogia il suo Te Deum, l’imperatore Francesco Giuseppe gli conferisce la croce di cavaliere e Brahms si riconcilia con lo schivo compositore. Solitario uomo d’altri tempi, fedele alla vecchia provincia, ancora legata a un patriottismo devoto e a un anacronistico ideale feudale, Bruckner si segnalava per i modi eccessivamente cerimoniosi (ne sapevano qualcosa Liszt e Wagner, fatti oggetto di una devozione esagerata), come per l’arrendevolezza spesso dimostrata di fronte a troppo zelanti allievi, pronti a dargli consigli riguardo alle sue composizioni: dati comportamentali, che si spiegano con la sua lunga frequentazione, in gioventù, dell’ambiente ecclesiastico, ma anche legati alla generale rilassatezza della società nell’“età giuseppina”, immersa in una quiete apparente, ad esorcizzare un sotterraneo imperativo: “Cupio dissolvi”. Una realtà che si rispecchia anche nell’Ottava sinfonia, non a caso dedicata al venerato imperatore Francesco Giuseppe.
Nel concerto di cui ci occupiamo la direzione dell’ultimo lavoro sinfonico compiuto di Anton Bruckner era affidata ad Alpesh Chauhan, tornato sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice in occasione del duecentesimo anniversario della nascita del compositore austriaco. Particolarmente pregnante la lettura offerta dal giovane maestro britannico, che ha saputo mettere in evidenza le macrostrutture come ogni dettaglio della più monumentale tra le partiture sinfoniche bruckneriane, oltre alla sua ricchezza di significati e climi espressivi: squarci lirici ed esplosioni di energia, momenti di esasperato intimismo e ingenue esternazioni di gioia, profonde meditazioni sul mistero dell’esistenza e fervide professioni di fede. Esemplare per intonazione, coesione, qualità del suono – nell’insieme come negli interventi di un determinato gruppo strumentale o di un singolo strumento – la compagine orchestrale, che ha pienamente assecondato l’autorevole – a tratti adorabilmente enfatico – gesto direttoriale. Un sentimento di ansiosa attesa ha percorso il primo movimento – dove ricorrono gli stessi elementi intervallari e soprattutto la cellula ritmica costituita da una duina seguita da una terzina – caratterizzato da tre aree tematiche. All’inizio della prima area, su un tremolo dei violini – tipico in Bruckner – i bassi hanno intonato sommessamente un tema cromatico, dal carattere misterioso, sulla stessa formula ritmica spezzata di quello che apre la Nona di Beethoven. Legni e archi, con i loro accostamenti timbrici, si sono segnalati nella seconda area più cantabile, iniziata da una linea ascendente in modo maggiore, mentre la terza area, culminata con grande energia in un climax, si è spenta in una coda con la ripetizione ossessiva di una cellula cromatica discendente, che era quasi un lamentoso glissando.
Nello Scherzo – anteposto all’Adagio come nella Nona di Beethoven – i violini hanno brillato nella ripetizione compulsiva, a livello delle prime battute, di un frammento della scala discendente di do minore, cui ha corrisposto l’intervento ascendente – subito seguito, nelle tre misure seguenti, da una brusca caduta – di viole e violoncelli: un materiale in apparenza tanto semplice, con cui Bruckner tratteggia affettuosamente il carattere del “Deutsche Michel” – il buon contadino tedesco – con tratti di acuta ironia (o forse autoironia). Nel Trio una sorta di idillio campestre – hanno primeggiato le arpe (presenti per la prima volta in una sinfonia di Bruckner) e i corni, su un pizzicato degli archi. Ma Chauhan ha superato se stesso nell’Adagio, dove ha delineato con estrema espressività questo vero e proprio “flusso di coscienza”, dove il canto ha predominato in tre successive aree melodiche: nella prima, aperta dalla melodia del violino, su un fremito delicato dell’orchestra, cui ha risposto un tema in forma di corale, seguito da una cadenza con l’intervento dell’arpa, ad impreziosire il disegno degli archi; nella seconda, aperta dai violoncelli, percorsa da un soffuso lirismo; nella terza, in cui si è imposto con pacatezza il trombone, a cui hanno degnamente risposto gli archi. Nel punto culminante del movimento l’intervento dei piatti e del triangolo ha intensificato la potenza dell’intera orchestra e successivamente quattro corni hanno accennato, con nostalgia, il tema di Siegried, dal Ring di Wagner e lentamente tutto si è spento in un silenzio, da cui è nata una coda dai toni diffusamente raccolti, ma animata dal contrasto tra le sonorità degli archi e il timbro metallico dei corni e delle tube wagneriane, con effetto tanto efficace quanto raro.
Analogamente pregante è risultato il gesto direttoriale nel quarto movimento – anch’esso costruito in base a ragioni più di ordine psichico che musicale –, che è iniziato con una “cavalcata” scandita con furore dionisiaco dai timpani a sostenere l’intervento massiccio degli ottoni: una sorta di apoteosi che è finita nel nulla. Seguivano, in successione: un secondo elemento tematico più pacato, desunto dall’Adagio; un terzo elemento che, introdotto da un clima oscuro, si è poi rivelato inaspettatamente uno squarcio di struggente lirismo; un climax altrettanto imprevedibile. Potente la coda finale con i corni che hanno ripreso, verso la conclusione, l’elemento ascendente dello Scherzo: un gesto suggestivo a conclusione di un lungo viaggio sonoro, alla scoperta di territori sconosciuti. Come altre volte l’ascolto di queste battute finali, in cui tutto si ricompone in una superiore armonia, ci ha fatto tornare alla mente gli ultimi versi del Paradiso dantesco:A l’alta fantasia qui mancò possa;/ma già volgeva il mio disio e ’l velle,/sì come rota ch’igualmente è mossa,/l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Successo travolgente con reiterati applausi e qualche ovazione per il maestro e l’orchestra.