Opera in tre atti su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy. Anaïs Constans (Noraïme), Edgaras Montvidas (Almanzor), Thomas Dolié (Alémar), Artavazd Sargsyan (Gonzalve, le Troubadour), Philippe-Nicolas Martin (Kaled), Tomislav Lavoie (Alamir), Douglas Williams (Abdérame), Lóránt Najbauer (Octaïr, le Héraut d’armes), Ágnes Pintér (Égilone). Purcell Choir, Orfeo Orchestra, György Vashegyi (direttore). Registrazione: Béla Bartók National Concert Hall, Müpa Budapest, 7-9 marzo 2022. 3 CD Fondazione Palazzetto Bru-Zane BZ1050.
Cherubini oltre “Medea” questo sembra essere uno degli obiettivi della nuova incisione del Palazzetto Bru Zane che propone per la prima volta in edizione critica “Les Abencérages” noto quasi solo per la ripresa fiorentina del 1957 in lingua italiana e lontanissima da qualunque forma di approfondimento critico. Composta nel 1813 l’opera rappresenta uno dei momenti più significativi della carriera parigina del compositore italiano, uno dei suoi maggiori successi e un lavoro emblematico della sua produzione forse non ispiratissima ma capace di cogliere alla perfezione lo spirito di quel momento di transizione e di traghettare la tradizione lirica francese verso i climi del nascente romanticismo.
Commissionata direttamente dalla corte e rappresentata la prima volta in presenza delle loro maestà imperiali Napoleone e Maria Luigia l’opera rappresenta insieme alla “Vestale” di Spontini – con cui condivide il librettista Victor-Joseph-Étienne de Jouy – uno snodo fondamentale nel passaggio tra la tragedie lyrique tardo settecentesca e il nuovo genere del grand’opéra. Tratta da un romanzo storico di Jean-Pierre Claris de Florian e ambientata alla corte di Granada alla metà del XV secolo l’opera si caratterizza per una cura della costruzione ambientale e per un’attenzione alla verosimiglianza storica in cui ormai già vediamo il gusto che si affermerà nei decenni a venire. Per quanto lo schema sia ancora in tre atti l’equilibrio tra parti cantate e ballabili, l’importanza del coro e dell’orchestra nella costruzione ambientale – quasi tutto il primo atto è così caratterizzato mentre l’azione prenderà di fatto via solo nel finale di questi per svilupparsi nel successivo, mostrano illuminanti aperture verso i tempi nuovi.
La musica di Cherubini – tutt’altro che spregevole e non inferiore a quella più nota di “Medée” – mostra la stessa natura. Le forme acquisite dalla tradizione sono ancora perfettamente leggibili ma si caricano di un’intensità nuova in cui già si ascoltano i semi dell’ormai prossima fioritura romantica e non è forse un caso che tra i più convinti ammiratori di quest’opera si annoverino Hector Berlioz e Felix Mendelssohn. Una musica cui manca forse il colpo d’ala del genio ma in cui si apprezzano un mestiere sommo e un intuito non comune e l’ascolto riserva autentica piacevolezza e non solo stimoli intellettuali.
L’esecuzione proposta – registrata a Budapest nel 2022 – è quasi integrale mancando solo alcuni numeri dei ballabili successivamente aggiunti da Cherubini su pressione dei primi ballerini dell’Opéra – ed è affidata a un complesso di assoluti specialisti come L’Orchestra Orfeo e il Purcell Choir sotto la guida di György Vashegyi. Abbiamo già apprezzato i complessi magiari in altri titoli del repertorio classico e barocco francese e in questo caso il risultato esecutivo non potrebbe essere migliore. Vashegyi coglie perfettamente il carattere ibrido della partitura sospesa tra tradizione e innovazione, evidenziandone il rigore classico delle forme ma accendendolo con i nuovi fuochi della sensibilità romantica senza dimenticare quell’edonismo espressivo che appare delle scene di genere e che sarà così tipico del gusto aulico francese. Ritmi quindi sostenuti e grande ricchezza di colori orchestrale ma sembra all’interno di una visione rigorosa e nitida. L’orchestra suona assai bene e veramente encomiabile la prova dell’impegnatissimo caro.
La compagnia di canto si trova a scontrarsi con la particolare vocalità prevista per questo repertorio. Scritte per due divi conclamati come Alexandrine Branchu e Louis Nourrit la parti principali si caratterizzano per uno stile vocale aulico e magniloquente che puntava a trasportare nel canto i modi della recitazione classica francese. Una vocalità in cui l’aspetto declamatorio e retorico prevaleva su quello melodico – tipico invece dell’opera italiana – dando a questi lavori un carattere autenticamente francese. Il problema oggi è riproporre questo tipo di canto e allo stesso tempo renderlo godibile per un pubblico ormai lontanissimo da quella sensibilità. Obiettivi entrambi troppo ambiziosi per questa produzione che si affida a ottime voci ma incapaci di cogliere quella particolare essenza.
Anaïs Constans coglie di Noraïme soprattutto il tratto lirico e patetico. La voce è bella e luminosa, ricca di armonici e sicura in acuto, l’accento pulito e pertinente ma manca un po’ di magniloquenza. L’interprete gioca però bene le sue carte puntando a una lettura personale e nel complesso funzionale del personaggio.
Soffre un po’ di più Edgaras Montvidas nella parte dell’amato Almanzor. Il tenore lituano è uno specialista di questo repertorio che conosce molto bene e affronta con successo da diversi anni ma in questo caso manca un po’ di peso specifico. La voce è innegabilmente bella, molto musicale e curata, il fraseggio elegante e tornito, gli acuti nitidi e squillanti così che i momenti più lirici come i duetti con Noraïme risultano assai suggestivi. Almanzor è però spesso chiamato a un canto aulico, eroico, tragico come nella perorazione difensiva di fronte alle accuse di Alémar che richiederebbe un’altra pasta vocale anche se la cura dell’accento compensano in parte i limiti di peso specifico.
Il malvagio Alémar è cantato con voce un po’ chiara – da baritono lirico in un ruolo che sembra volere una voce più scura e drammatica – ma con dizione esemplare e forza d’accenti da Thomas Dolié. Artavazd Sargsyan domina con sicurezza la tessitura acuta e il canto nobile e araldico di Gonzalve e perfettamente funzionali le numerose parti di fianco.