Milano, Teatro Elfo Puccini: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”

Milano, Teatro Elfo Puccini, Stagione 2023/24
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO”
Commedia leggera per persone serie di Oscar Wilde
Algernon Moncrieff RICCARDO BUFFONINI
Jack Worthing GIUSEPPE LANINO
Gwendolen Fairfax ELENA RUSSO ARMAN
Lady Augusta Bracknell IDA MARINELLI
Reverendo Chasuble LUCA TORRACA
Miss Prism CINZIA SPANÒ
Cecily Cardew CAMILLA VIOLANTE SCHELLER
Merriman/ Lane NICOLA STRAVALACI
Regia, scene e costumi di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Luci
Nando Frigerio
Suono
Giuseppe Marzoli
Produzione Teatro dell’Elfo con il sostegno di Fondazione Cariplo
Spettacolo sostenuto nell’ambito di NEXT 2017/18
Milano, 27 dicembre 2023
Si ripropone all’Elfo – con la forza del riconoscimento di immortalità (un intero mese di repliche) – la produzione che quasi sette anni fa vi prese vita de “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, e che gode e ha goduto del plauso di diversi colleghi, oltre che del pubblico. La messa in scena in questione, di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, punta a una rilettura estetica della commedia, trasposta in un non-luogo pop dalle venature camp fuori dal tempo, nel quale si vorrebbe di forza leggere Andy Warhol, ma in realtà è solo parzialmente anni Sessanta (negli arredi in scena, per lo più), e non abbastanza chic – persino l’esagerata e magniloquente Lady Bracknell è vestita più o meno come la mia vicina di casa. Tuttavia, vuoi la forza del pastiche, vuoi che una resa non vittoriana ci intriga, l’assetto scene-costumi ha il suo perché, che magari non incontra del tutto il nostro gusto (i grandi poster in cui si vuole sdoganare Wilde come una popstar, ad esempio, ci paiono fuori luogo), ma che funziona e appaga l’occhio. È l’aspetto più chiaramente recitativo che desta, invece, più di un dubbio, giacché crediamo che Wilde tragga la sua forza testuale e la sua modernità, per così dire, dal contrasto paradossale tra ciò che si dice e come lo si dice – concetti giganteschi sciorinati come pettegolezzi e amenità scioccherelle proclamate come assolute verità. Questa è ciò che tecnicamente si definisce wit, concetto di difficile traduzione, ma che grossomodo implica sia eccentricità del contenuto che sprezzatura nella forma. La messa in scena di Bruni e Frongia, invece, gioca su un pericoloso ribaltamento di questa non scritta regola: eccentricità nella forma e nonchalance per il contenuto, che, francamente, non ci pare un sentiero rispettoso dell’intento autorale. Per capirci meglio: che Riccardo Buffonin (Algernon Moncrieff) reciti tutto saltellando, sbracciandosi e col tono di una televendita, non ci pare una gran trovata registica – peraltro ammiccando di continuo al pubblico, attitudine sia assolutamente estranea al teatro wildiano, sia alla lunga fastidiosa; men che meno che Elena Russo Arman costruisca una Gwendolen Fairfax in là con gli anni, lamentosa e ciecata (un omaggio ad Anna Marchesini, forse), o che Camilla Violante Scheller faccia di Cecily Cardew una teenager sfacciata, sgraziata e in crisi ormonale. Dato che si parla di tre dei quattro protagonisti, è evidente che non si tratti del problema di un interprete, ma di una diminutio voluta: il suo perché ci risulta ignoto, possiamo solo immaginare che questo voglia “alleggerire” il tono fin-de-siècle con dialettiche più attuali, sebbene rimaniamo dell’idea che se uno va a vedere Wilde voglia vedere Wilde, e non altro – e qui, di Wilde, se ne vede poco. Ribilanciano in parte la situazione gli altri interpreti, le cui prove rientrano in un alveo maggiormente classico, a cominciare da Giuseppe Lanino, un Jack costruito col giusto mestiere e fascino, talvolta anch’egli piegato alla regia, altre più libero di esprimere la propria intensa personalità attorale. Azzeccate le performance vagamente passé di Cinzia Spanò e Luca Toracca, rispettivamente una Miss Prism e un Reverendo Chasuble ben caratterizzati nella loro pruderie, e senza dubbio commovente la prova di Ida Marinelli, una Lady Bracknell probabilmente imperfetta, ma dotata dello specifico charme che la grande interprete ha saputo conferire a ciascuno dei ruoli che nella sua carriera ha affrontato, tutto giocato sul delicato equilibrio di classicità e divergenza, coraggio e aplombe. Infine, Luca Stravalaci mette a disposizione la sua nota verve comica nei ruoli del maggiordomo Merrimen e del valletto Lane, entrambi piuttosto caricati dall’impostazione registica. Il pubblico ricopre di applausi anche questa ripresa, sebbene probabilmente non del tutto consapevole di ciò che ha visto e di ciò che avrebbe dovuto/potuto vedere – dal momento che Wilde è un autore ancora poco conosciuto nel nostro Paese, legato a un paio di titoli e alle sue sfortunate vicissitudini personali. Si replica fino al 14 gennaio. Foto Laila Pozzo