Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto
Akademie für Alte Musik Berlin
RIAS Kammerkhor Berlin
Direttore Justin Doyle
Soprano Julia Doyle
Controtenore Benno Schachtner
Tenore Alexander Sprague
Basso Neal Davies
Georg Friedrich Handel: “Messiah” Oratorio in tre parti per soli coro e orchestra HWV 56
Torino, 15 dicembre 2023
Il Natale porta a Torino, per la stagione dei concerti del Lingotto, il Messiah di G.F.Handel che si conferma come uno dei più tipici programmi natalizi. Per l’esecuzione arrivano, forse per la prima volta in città, due tra i complessi più prestigiosi europei: i 34 coristi berlinesi del RIAS Kammerkhor uniti ai trenta strumentisti, sempre berlinesi, dell’Akademie für Alte Musik. La direzione dei due complessi è nelle mani esperte e sapientissime di Justin Doyle, ex corista, di scuola King’s College, ora approdato alla leadership delle due formazioni berlinesi. Si è quindi ad un accostamento di stampo anglo-sassone al barocco, non sempre in accordo con lo stile romano delle origini che vorrebbe scintillante vivacità strumentale unita a stupore e fantasia vocale. I complessi berlinesi seguono alla lettera, con stupefacente ed ineguagliabile perfezione esecutiva, il testo dell’oratorio che contempla pochi righi per lo strumentale con scarne indicazioni dinamiche e coloristiche. Lo stesso Halleluija, coro finale della seconda parte, assurto, fin dalla creazione dell’opera, a simbolo del trionfalismo in musica, prevede la sola sovrapposizione al continuo degli archi di una solitaria tromba e del timpano. Mandate in soffitta le oceaniche formazioni post-romantiche e la loro magniloquenza sonora, per noi, ancora affezionati e simpatizzanti per i verdiani Dies Irae, non è così immediato cogliere l’essenza gioiosa e poetica dell’esecuzione moderata e “da camera” del capolavoro di Handel. Crediamo che le capacità tecniche e i risultati di intonazione, precisione degli attacchi e tridimensionalità del suono del Kammerchor RIAS siano insuperabili, come quelle dell’Akademie für Alte Musik, tali da trasformare in oggetti di culto e di riascolto le loro registrazioni millimetricamente controllate, ma che manchino dell’immediatezza che si vorrebbe da un’esecuzione “dal vivo”. All’interno delle due ore e mezza di ascolto pareva stagnasse tra il pubblico una qualche vena soporifera che neppure la “scossa” dell’Halleluija con tromba e timpano è riuscita a dissipare completamente. Gli applausi non sono mancati, me è mancata quella carica che in altre occasioni ha portato, non solo per l’emulazione dei pubblici d’Oltre Manica, a delle standing ovations. I quattro solisti anch’essi si sono mostrati pienamente in linea con l’understatement complessivo. Il Messiah consiste in un racconto, costruito su versetti biblici, che, difformemente dalle Passioni bachiane, evita di drammatizzarsi in dialoghi e scontri tra personaggi. Si può classificare come una rielaborazione, a sfondo religioso-contemplativo, del “teatro degli affetti”: recitativi ed ariosi, più o meno melodizzati che introducono cori ed arie di assoluta bellezza e piacevolezza. Queste ultime vengono tenute in un registro intenzionalmente mediano, in cui il “meraviglioso” si intravede di continuo per non essere mai esibito in pienezza. Non c’è spazio per atletismi virtuosistici e neppure per i “da capo” che fin dai tempi del suo soggiorno romano, erano marchio immancabile delle produzioni del sassone. A questo clima, accentuato dalla compassata direzione di Justin Doyle, si accordano perfettamente i quattro solisti, più che mattatori di serata, sono prime voci emergenti da un coro in cui, alla fine, si mescolano anche fisicamente rimanendone indistintamente assorbiti. Alexander Sprague, il tenore, con amorevole simpatia e correttezza ci assicura gentilmente che saremo confortati e che le valli saranno riempite e le montagne spianate. Negli anni 60, in una incisione RCA, con un Beecham orgogliosamente disinformato e la Royal Philharmonic straordinariamente ingigantita, lo sfolgorante John Vickers, con questo perentorio avvio, folgorava. Benno Schachtner, tenue controtenore tedesco si inserisce in quella tradizione dei controtenori alla Alfred Deller: linea vocale corretta, timbro gradevole, espressività forzata. Il basso Neal Davies, come quasi sempre con questi spartiti, è un baritono di timbro anche abbastanza chiaro. Canta bene, evita con sicurezza di cadere nelle affascinanti e pericolose discese cromatiche dell’aria delle tenebre, numero 10 della partitura. Lo spessore vocale è comunque quello del bravo professionista che porta a termine più che dignitosamente la sua parte. Non si fa poi sfuggire un guizzo finale di irruente simpatia, nell’aria, con tromba obbligata, che sta nelle ultime pagine della partitura: la tromba suonerà ecc. Julia Doyle anch’essa proveniente da Cambridge e dalle sue istituzioni musicali, impersona la voce angelica e risulta del tutto pertinente a ciò è la sua interpretazione depurata, per quanto le è possibile, da improprietà formali e moti del cuore. Le sue arie si risolvono in belle e tranquillizzanti ninna-nanna.Il pubblico, foltissimo all’inizio, s’è un poco diradato (ma poco-poco!) nel corso delle 3 ore di musica e dell’intervallo. Col supporto fattivo e sonoro di gruppetti di giovani, gli applausi non sono mancati e hanno premiato gli eccezionali complessi e indistintamente interpreti e direttore. Significativa l’ovazione al coro che vorremmo coniugare al rammarico che da noi un gruppo di tale levatura tecnico-artistica sia merce forse introvabile.