Como, Teatro Sociale, Stagione Notte 2023/34
“DON CARLO”
Opera in quattro atti su libretto di François-Joseph Méry e Camille du Locle, tradotto da Achille De Lauzières e Angelo Zanardini e tratto dall’opera omonima di Friedrich Schiller.
Musica di Giuseppe Verdi
Don Carlo PARIDE CATALDO
Filippo II CARLO LEPORE
Rodrigo, Marchese di Posa ANGELO VECCIA
Elisabetta di Valois CLARISSA COSTANZO
La Principessa d’Eboli LAURA VERRECCHIA
Il Grande Inquisitore MATTIA DENTI
MTebaldo SABRINA SANZA
Un Frate GRAZIANO DALLAVALLE
Una voce dal cielo ERIKA TANAKA
Il conte di Lerma / Un araldo RAFFAELE FEO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore Jacopo Brusa
Maestro del coro Massimo Fiocchi Malaspina
Regia Andrea Bernard
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Luci Marco Alba
Nuovo allestimento
Como, 10 dicembre 2023
Il “Don Carlo” di OperaLombardia è ambientato negli anni ’70, in un regime militare di cui Filippo è il dittatore, il suo palazzo è una prigione e lui vive in una sala di controllo video; Carlo invece ha una cameretta con un telescopio, un amico in stile “Romanzo Criminale” (Posa), una matrigna che più sciura (come diremmo a Milano) non si potrebbe; Tebaldo è una sorta di poliziotta bdsm, Eboli dovrebbe essere una principessa, ma pare la colf. O sembra una donna a capo di altre donne torturate e poi rieducate con l’asportazione di un occhio (ed ecco la storica benda); il temibile Grande Inquisitore, qui è un vegliardo moribondo in sedia a rotelle, impigiamato e intubato. Questo “pasticcio” (del quale apprezziamo solo il Quarto Atto tra i cadaveri, dal gusto originalmente macabro), è da ascrivere ad Andrea Bernard, con le scene di Alberto Beltrame e i costumi di Elena Beccaro. Tuttavia, ormai al terzo disastro scenico di seguito sulle scene lombarde, vorremmo capire oltre che subire – ad esempio: perché ogni tanto (tra cui sul finale) scende una specie di ufo di luce sulla scena? Perché la voce dal Cielo è personificata in una sorta di fantasma coscienziale che accompagna Elisabetta? Perché mentre i messi fiamminghi vengono trucidati in scena, a Elisabetta e Filippo viene servita dell’acqua? Perché nell’unico momento in cui il coro irrompe sul palco, le cantanti sono vestite con abiti all’ottocentesca? “Don Carlo” è un’opera magnifica, ma non conosciutissima dal grande pubblico, specie in un circuito regionale: una regia come questa lascia troppi punti in sospeso, ostacolando la comprensione della vicenda – lamentela espressa anche da molti presenti in sala. Bernard fa bene a sognare i palchi di teatri pieni di esperti musicologi, ma fin tanto che si trova a lavorare in provincia, dovrebbe mettersi a servizio del pubblico, prima che della propria fantasia, e incaricarsi del nobile compito divulgativo – più nobile dell’espressione dei vari gradi del proprio Sé. Per fortuna la parte musicale ci ha riservato, invece, alcune belle sorprese. La migliore è stata la direzione di Jacopo Brusa, Maestro ormai affermato in costante ascesa: la sua è una conduzione attentissima ai colori, elegantissima, aderente alla partitura nei suoi significati più profondi, ne valorizza i momenti di vero e solenne eroismo, come di macerante sentimento, mantenendo viva quella crescente tensione che l’assetto scenico invece disperde tra una trovata e l’altra. Il gesto ben calibrato e al contempo partecipe si accompagna a una efficace unità tra buca e scena. Laura Verrecchia in un ruolo “Falcon” come quello di Eboli sfoggia acuti fulgenti e facilità al canto in quella zona, per contro i centri ci appaiono non ben a fuoco. Complessivamente è una prova che Verrecchia supera grazie al fascino, alla grande dedizione scenica e a quei momenti in cui il bel colore smaltato emerge. Ci resta un dubbio sulla liceità di indossare la benda, dal momento che la regia è trasposta negli anni Settanta, e dunque la Eboli che vediamo non può essere Ana Mendoza y de la Cerda, tra le più avvenenti principesse della corte asburgica di Spagna nonostante privata di un occhio – o forse proprio per questo. Accanto a lei le altre interpreti femminili hanno fornito prove più che soddisfacenti: Clarissa Costanzo è una valida Elisabetta di Valois: la sua vocalità è spiccatamente drammatica, ha centri sonori e acuti tondi, pieni, ma a tratti emerge anche una mancanza di naturalezza nell’uso delle mezzevoci. Anche sul piano attoriale la Costanzo mostra un certo impaccio, forse dovuto alla oggettiva complessità drammaturgica del ruolo, e alla giovane età dell’interprete campana. Prove convincenti, per quanto risicate, offrono anche Sabrina Sanza (Tebaldo) ed Erika Tanaka (una voce dal Cielo). Nel settore maschile emerge Carlo Lepore, un Filippo corretto e ispirato, con gravi solidi e pastosi, portamento nobile e dizione ben scolpita; come Grande Inquisitore Mattia Denti mette in luce le indubbie doti vocali, il fraseggio però ci è parso un po’ generico. Angelo Veccia è un Posa dal timbro personale, dai bei colori riconoscibili, sana, solida e ottimamente proiettata; in qualche momento l’intonazione vacilla ma Veccia riesce sempre a riportare tutto nell’ambito di qualche guizzo interpretativo. Il protagonista, Paride Cataldo ci è parso discontinuo, forse perchè i panni di Don Carlo gli stanno un po’ strettini. Non si può però non sottolineare come Cataldo si impegni al massimo, con una bella linea di canto, sebbene il suono sia un po’ privo di magniloquenza, come il ruolo richiederebbe. Il suo è un Don Carlo giovane e forse acerbo, non eroico. Infine, nell’ambito della correttezza gli altri ruoli: Graziano Dallavalle (Un frate), e il Conte di Lerma e Araldo di Raffaele Feo. Di alto livello il Coro, molto coeso nelle parti di insieme e anche negli interventi dei deputati fiamminghi, dove è evidente la buona musicalità delle voci e la chiara vocazione scenica; un plauso al Maestro Massimo Fiocchi Malaspina. Gli applausi calorosi, ma anche diverse contestazioni verso la regia, hanno suggellato la chiusura della tournée lombarda del titolo. Foto Alessia Santambrogio