Napoli, Teatro Bellini: “Misery”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2023/24
MISERY”
di William Goldman dall’omonimo romanzo di Stephen King
Traduzione Francesco Bianchi
Annie Wilkes ARIANNA SCOMMEGNA
Paul Sheldon ALDO OTTOBRINO
Sceriffo CARLO ORLANDO
Regia Filippo Dini
Scene e Costumi Laura Benzi
Luci Pasquale Mari
Musiche Arturo Annecchino
Produzione Fondazione Teatro Due
Napoli, 7 novembre 2023
Le etichette, ahimè, son sempre irrimediabilmente asfissianti: soltanto poche volte riescono a restituire, in modo effettivo, le variegate e pirandelliane «possibilità d’essere» presenti in un’opera. E così Misery, di William Goldman e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, appare vagamente come una «commedia drammatica»: reca in sé un’aria potentemente «comica», e l’effetto, che questo contrasto produce, determina l’ibridismo e l’indeterminatezza dell’opera. La storia d’una donna, Annie Wilkes, che costringe se stessa in una reiterata ed alienante lettura d’una serie di romanzi: unico mondo entro cui poter vivere «totalmente», ed unico mondo entro cui poter soddisfare pulsioni disperatamente represse. Per uno strano gioco del caso, Annie si ritrova a dover soccorrere proprio lo scrittore, Paul Sheldon – vittima d’un incidente stradale –, di cui è fatalmente ossessionata. Lo trae, dunque, in casa propria e lo rinserra in camera da letto: ad un tratto, la donna riscopre se stessa come creatrice del suo creatore: giunge a torturarlo sadicamente, pretendendo dall’autore un «nuovo» scritto, ma «sempre uguale» ai precedenti. Ma tutto ciò accade in modo causticamente ironico o grottesco. È una tragicommedia, che appare come strutturalmente organizzata in due atti e in un epilogo, e che potremmo definire come una «esemplificazione» d’una indagine sociologica sull’arte, che supera, però, i teoremi puramente sistematici o teoretici d’una inchiesta sociologica, poiché le integra e le innesta in se stessa. Goldman, dunque, effettua, sia pure in modo vagamente ironico, una indagine analitica sul variegato rapporto tra il mondo dell’arte e i suoi fruitori, in quanto «singoli individui socializzati», per dirla con Theodor Adorno: questo dramma comico, almeno formalmente, appare come un «documentario» sui vari effetti sociali che l’arte può produrre e determinare, e su una tipologia di comportamento «artistico» – condotto, ovviamente, da Goldman ad estreme e parossistiche conseguenze – che un fruitore d’arte, se incastrato in uno stato nevrotico, può assumere; un comportamento nevrotico della fruizione del prodotto artistico, in questo caso la lettura «totalizzante» d’una serie romanzesca; ed il termine «serie» appare come estremamente appropriato, proprio perché il carattere nevrotico non soltanto può appartenere al fruitore, costretto da se stesso ad una reiterata consumazione d’un prodotto letterario costruito in serie; ma ciò può determinare anche il gesto creativo, nevroticamente ripetitivo, dell’autore che finisce per «produrre», in modo «seriale», prodotti letterari: un prodotto artistico «uguale» all’altro. «Nuovo e sempre uguale», appunto: concetto teorizzato da Adorno a proposito della tecnicizzazione dell’opera d’arte e dell’organizzazione meccanica e razionalistica del processo creativo. Ovviamente, la reiterazione del gesto creativo implica una reificazione dell’opera letteraria. Tutto ciò viene affrontato ed esposto attraverso una scrittura dal taglio e dal carattere fortemente televisivi, da serie tivù; e tutto ciò colloca l’opera nell’ambito d’un ibridismo linguistico e strutturale – dal momento che il taglio potentemente «cinematografico» non soltanto ha determinato linguisticamente il tessuto sintattico del testo, tradotto da Francesco Bianchi (fresco, dall’aria amaramente «comico», imbevuto d’una tragica vitalità), ma anche, e soprattutto, la regia – firmata da Filippo Dini, e costituita da un disegno scenico estremamente sintetico, sia pure formato da gesti e movimenti estremamente parossistici e potentemente marcati, in perfetta e realistica consonanza con i comportamenti tragicamente e comicamente nevrotici in cui sono costretti i personaggi. Ogni gesto, ogni movimento sono caricati d’una forza espressiva, sempre – però – contenuta e costretta entro uno schema generale formalmente e severamente «geometrico»: la potenza linguistica e comunicativa che un gesto assume rimanda, metaforicamente e con estrema nitidezza, all’ «operazione repressiva» che i personaggi stanno esercitando inconsciamente nei confronti delle loro pulsioni: l’autore che rinuncia ad un rinnovamento artistico; la sua ammiratrice che vive attraverso ciò che l’autore continua ad essere artisticamente: una ripetizione di se stesso. Linguaggio scenico che sostiene – se non sostituisce, a volte – il linguaggio puramente verbale. Un «metalinguaggio», in senso vago della definizione, espresso, sia pure in modo meccanico o «tecnico», anche dalla struttura scenica – progettata da Laura Benzi (ideatrice anche degli appropriati costumi) – riproducente, in modo poeticamente sintetico, la camera da letto, l’ingresso ed il cucinino dell’appartamento della donna. È una struttura roteante (ed ecco la carica comunicativa e la potenza linguistica che i movimenti della macchina possono assumere), teneramente illuminata da Pasquale Mari; una struttura che consente vari cambi di scena, come se fossero fotogrammi: ed ecco, come detto prima, il carattere televisivo dell’opera. Ottimi, dunque, i tre attori, sostenuti nella recitazione dalle tetre atmosfere sonore composte da Arturo Annecchino: Arianna Scommegna interpreta perfettamente Annie Wilkes: donna dal comportamento spaventosamente schizoide, e che alterna momenti di «distacco emotivo» a momenti caratterizzati da parossistici scatti isterici; risatine contratte e nervose, ed un linguaggio caratterizzato da una marcata «espressività», in perfetta concordanza con lo stato nevrotico in cui il personaggio è incastrato; il disturbo di personalità di Annie fa da contraltare al tratto vagamente narcisistico che caratterizza, invece, la personalità dello scrittore Paul Sheldon – interpretato da Aldo Ottobrino, che riesce a restituire, attraverso una amara e tragica ironia, il ritratto d’un artista costretto alla reiterazione e alla reificazione del gesto creativo, e ciò avviene attraverso un parlare tra sé e sé, scatti d’estrema furia ed una vaga, e soltanto iniziale, contentezza nel ricevere le attenzioni, benché spaventosamente insane, della donna. Ottimi e scenicamente appropriati, poi, anche gli interventi dello Sceriffo, interpretato da Carlo Orlando. Successo di pubblico, tanto attento, numeroso ed attivamente «partecipe» nei vari colpi di scena che hanno caratterizzato questa preziosa tragicommedia. Foto Andrea Morgillo