Milano, Teatro Elfo Puccini, Stagione 2023/24
“RE LEAR”
di William Shakespeare nella traduzione di Ferdinando Bruni
Lear ELIO DE CAPITANI
Kent/ Messaggero UMBERTO TERRUSO
Gloucester GIANCARLO PREVIATI
Edgar/ Borgogna MAURO BERNARDI
Edmund SIMONE TUDDA
Goneril ELENA GHIAUROV
Regan ELENA RUSSO ARMAN
Cordelia/ Vecchia VIOLA MARIETTI
Albany GIUSEPPE LANINO
Cornwall/ Capitano ALESSANDRO QUATTRO
Matto MAURO LAMANTIA
Oswald/ Francia/ Araldo NICOLA STRAVALACI
Regia, scena e costumi Ferdinando Bruni, Francesco Frongia
Luci Michele Ceglia
Suono Gianfranco Turco
Coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria
Milano, 26 ottobre 2023
Raramente negli ultimi tempi ci è capitato di incorrere in uno spettacolo di prosa a Milano di cui condividiamo le forme basilari, lo scopo, il processo costruttivo dei personaggi e della vicenda. “Re Lear” portato in scena in questi giorni al Teatro Elfo Puccini rappresenta proprio una di queste rarità, ed è facile capirne le ragioni; in primis il lavoro parte e torna al testo, nudo, semplice, in una traduzione agile e funzionale che non ne esaurisca la potenza tra pretese attualizzanti o filologie esasperate: è uno Shakespeare scespiriano, e vivaddio; in secondo luogo, la forma scelta è quella più consona non solo al tipo di testo, ma anche alla sua comunicativa, ossia quella drammatica tradizionale, senza didascalie lette al pubblico, monologhi al microfono, riprese video live, canzoni pop-rock cantate un po’ a caso e altre amenità tanto di moda negli ultimi anni: uno spettacolo in cui gli attori sono attori, il pubblico è pubblico e non ci si sente in costante affanno di capire cose che francamente nemmeno vorremmo vedere; inoltre il lavoro sui personaggi è chiaro, pulito, supportato da una recitazione curata e costruita ad hoc, guarnita di dizione per lo più standard, e l’analisi si spinge fin dove ci si aspetterebbe – alla regia viene dato il compito delle variazioni, degli aggiornamenti, delle caratterizzazioni, delle sperimentazioni visuali, ma i personaggi sono sviluppati coerentemente al testo, senza venire travisati o adattati. Il merito di questo gioiellino dei nostri giorni va per lo più a Ferdinando Bruni, traduttore e curatore dell’allestimento, insieme al compagno Francesco Frongia: soprattutto affascina la scena (dipinta dallo stesso Bruni), tutta di telette semovibili, decorate con graffiti un po’ à la Basquiat, che vengono ancora più impreziosite dalle attente luci di Michele Ceglia, capaci di trasformarle in incisioni rupestri come in fredde mura. Il cast, che presenta diversi volti di casa all’Elfo, è di livello alto: spiccano senza se e senza ma Elio De Capitani, un Lear rutilante senza gigioneria, né troppo accademico né troppo attuale, che vede nella voce il suo strumento d’elezione; Elena Ghiaurov ed Elena Russo Arman (Goneril e Regan), due delle migliori attrici che abbiamo in Italia, nei ruoli di due figlie e sorelle vipere da manuale; l’elegante e un filo compassato Giuseppe Lanino, nel ruolo di Albany; Simone Tudda e Mauro Bernardi, i fratelli Edmund ed Edgar, l’uno piacevolmente intrigante, l’altro convincente e struggente Tom di Bedlam, entrambi dotati di una fisicità senz’altro seducente e costruita sui ruoli; godibilissimi anche i siparietti inscenati da Nicola Stravalaci, al cui Oswald è stata conferita una caratterizzazione grottesca, semicomica, pienamente funzionale al testo e alla scena, e quelli di Mauro Lamantia, un Matto meridionale e fuori contesto, spogliato dei fronzoli estetico-letterari del personaggio, e tutto costruito sulla scena fisica e sulla parola detta. Chi ci ha convinto meno, invece, lo ha fatto per poca incisività, più che per una vera e propria mancanza: Viola Marietti, ad esempio, è una Cordelia dotata di grazia e di un’interessante vocalità contraltile, ma troppo en souplesse rispetto alla sua stessa caratterizzazione (paradossalmente, riesce meglio nel piccolo ruolo della Vecchia); idem Giancarlo Previati, un Gloucester un po’ troppo simile a se stesso, oltre che talvolta non di perfetta intelligibilità; e così il Kent di Umberto Terruso avrebbe potuto spingersi di più nella connotazione del suo personaggio, prototipo dell’essere umano che riesce a conciliare amore per il suo sovrano e fedeltà a sè, mentre rimane nella comfort zone della bravura d’attore, senza rischiare un’indagine più radicale; infine Alessandro Quattro, cui tocca il “cerino corto” di Cornwall, personaggio di per sé piuttosto stereotipato e bidimensionale – de facto un doppio di sua moglie Regan – che l’attore attraversa con grande misura, ma senza un guizzo, forse proprio temendo di finire nel cliché e nel già-visto. Nella sua complessità, comunque, si nota una grande omogeneità nel cast, un affiatamento per nulla scontato per una produzione così ponderosa; ma, probabilmente, proprio qui sta la chiave di questo “Re Lear”: non ci si rende davvero conto della maestosità di quello cui assistiamo finché non termina l’ultima battuta, e questo senz’altro grazie alla freschezza della recitazione e al ritmo sempre alto conferito alla drammaturgia. Insomma, un “Re Lear” come si deve, da non perdere. In replica fino al 19 novembre. Foto Laila Pozzo