Giacomo Meyerbeer: “Robert le diable” (1831)

Grand-opéra in cinque atti su libretto di Giacomo Meyerbeer, Eugène Scribe e Germain Delavigne. John Osborn (Robert), Nicolas Courjal (Bertram), Amina Edris (Alice), Erin Morley (Isabelle), Nico Darmanin (Raimbaut), Joel Allison (Alberti, Un Prêtre), Paco Garcia (Un Héraut d’armes), Marjolaine Horreaux (Première Choryphée), Lena Orye (Deuxième Choryphée), Olivier Bekretaoui (Chevalier), Luc Seignette (Chevalier, Troisième Joueur), Jean-Philippe Fourcade (Chevalier, Premier Joueur), Simon Solas (Chevalier, Deuxième Joueur). Orchestra National Bordeaux Aquitaine, Choeur de l’Opéra National de Bordeaux, Salvatore Caputo (maestro del coro), Marc Minkowski (direttore). Registrazione: Auditorium de l’Opéra National de Bordeaux, 20-27 settembre 2021. 3 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane BZ 1049.
Robert le diable” opera mitica e pur quasi dimenticata, titolo seminale di tutto il melodramma – non solo francese – dagli anni 30 del XIX secolo eppure oggi praticamente scomparso dai palcoscenici. Riflettere oggi sul primo dei grand-opéra di Meyerbeer è farlo su tutta la cultura musicale dal Secondo Ottocento e non solo e la nuova registrazione della Fondazione Palazzetto Bru Zane che dell’opera propone una versione quasi integrale – di certo la più completa oggi a disposizione mancando solo alcune sezioni di recitativo e alcune riprese – offre l’occasione di tornare a ragionare su questo titolo.
Accolta trionfalmente nel 1831 l’opera ha rappresentato un modello e un termine di confronto imprescindibile per generazioni di musicisti. Da un lato a fissato uno schema formale – ambientazione storica, cinque atti, ballabili inseriti narrativamente nella trama, uso dei cori e dei personaggi di contorno per creare un colore ambientale ben definito – che avrebbe monopolizzato il principale palcoscenico parigino per decenni dall’altra si è imposta con tale forza da rappresentare un confronto imprescindibile per tutti i compositori successivi per imitazione o per opposizione.
Il successo della prima – e non solo se si considera che l’opera fu tra le più rappresentate al mondo almeno fino al 1870 – fu dovuto sicuramente alla qualità della scrittura di Meyerbeer che qui raggiunge livelli di assoluta perfezione formale mostrando un linguaggio cosmopolita in cui un senso melodico di pretta matrice italiana si unisce al valore prosodico del canto francese e a una ricchezza orchestrale di stampo germanico ma anche alla sontuosità dello spettacolo in cui musica, scenografia, danza – i celebri balletti coreografati da Taglioni – e uso di tecnologie all’epoca all’avanguardia come l’illuminazione a petrolio garantirono una sorta di prodromo all’idea di opera d’arte totale che si svilupperà nella seconda metà del secolo.
Il calo della fortuna di quest’opera – come in genere della produzione di Meyerbeer – è in gran parte da attribuire a questioni che prescindono la qualità musicale. Nella sua posizione di autentico dittatore della vita musicale parigina il compositore si era attirato molte inimicizie che alla sua morte – avvenuta nel 1864 – esplosero con violenza. Ancora più importante fu il mutare del contesto storico. Ebreo e di origine tedesca Meyerbeer incarnava il nemico pubblico ideale in un paese che dopo Sedan al tradizionale antisemitismo si fondeva un sentimento antitedesco che faceva di ogni ebreo un possibile traditore al servizio del Kaiser, non il clima migliore per apprezzare la musica di Meyerbeer il cui stesso cosmopolitismo formale veniva guardato con sospetto dal crescente nazionalismo.
Lasciati alle spalle gli accidenti della storia possiamo concentrarci sul solo dato musicale. Registrata dal vivo a Bordeaux con ottimo suono la registrazione consente di farsi un’idea quanto mai precisa delle qualità musicali del titolo.
Merito principale della riuscita spetta alla direzione di Marc Minkowski. Maestro di solido formazione filologica passato al repertorio ottocentesco dopo una lunga frequentazione di quello antico e barocco porta anche qui tutta l’esperienza maturata. L’orchestra utilizzata è moderna ma si nota una ricerca di sonorità, di colori e di tinte che sono quelli dell’epoca. Una direzione che rinuncia ai tratti muscolari che spesso hanno caratterizzato le riprese delle opere di Meyerbeer per ricondurci a un universo musicale in cui ancora assolutamente vitale è la tradizione tardo classica in cui la lezione del Rossini serio si arricchisce dei nuovi sentori romantici. La ritmica brillante e sostenuta, i colori tersi e luminosi, la leggerezza di fondo che si ritrova anche nei momenti più intensi rievocano al meglio la cifra stilistica più autentica di questo repertorio. Particolarmente efficacie il gioco cromatico tra cielo e terra, tra redenzione e dannazione che attraversa tutta l’opera è che Minkowski realizza con ammirevole delicatezza di tocco.
La direzione ovviamente non basta in un’opera come questa dove le voci sono autentiche protagoniste e il cast messo insieme per l’occasione è quanto di meglio si possa oggi desiderare. John Osborn affronta un ruolo “mitico” del tenorismo ottocentesco con la sicurezza e il senso stilistico che solo lui oggi sembra possedere. La parte di Robert è una sorta di spartiacque nella storia della vocalità tenorile a cavallo tra una matrice ancora rossiniana e l’impellenza dell’espressività romantica che si traduce in una scrittura vocale ibrida dove il canto misto alla Rubini si fonde con le nuove esigenze di un canto di forza. Osborn possiede queste  caratteristiche:squillo eroico, accento epicheggiante ma sempre con un perfetto controllo dell’emissione che gli permette squarci di sublime dolcezza quando richiesto.
Ottima prova anche per  Erin Morley (Isabelle). Soprano leggero dalla voce agilissima ma non esangue, dal timbro bello e morbido e dalla tecnica esemplare che le permette di far sembrare naturali e facili i più impervi passaggi di coloratura. Acuti e sopracuti sono facilissimi così come impeccabile è il controllo del fiato. Il suo è un canto sempre espressivo che non risulta mai meccanico neppure nei passaggi più estremi. Timbricamente la sua voce è quella di Osborn si fondono alla perfezione creando momenti di autentica magia come nel grande duetto del IV atto.
Autentica rivelazione Amina Edris come Alice. La voce è forse un po’ chiara ma il volume è significativo e l’intera – scomoda – tessitura è dominata con naturalezza. Nonostante una pronuncia francese un po’ costruita l’interprete è convinta e appassionata costruendo un personaggio di forte spicco. Nicolas Courjal è un ottimo Bertand. Voce non enorme ma sicura e omogenea e caratterizzata da una linea raffinata senza cadute di stile e da un accento curato e partecipe capace di dare al diavolo un ritratto più ricco e sofferto. Nico Darmanin è un valido Raimbaut dal timbro piacevole e dalla linea sicura. Ottima la prova del coro notevolmente impegnato e funzionali le numerose parti di fianco.
Il cofanetto presenta una serie di interessanti saggi – in inglese e francese – che fanno luce sull’importanza storica e sulla fortuna di quest’opera.