Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”, 69º Festival Puccini
“LA BOHÈME”
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scenès de la vie de bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo ORESTE COSIMO
Mimì CLAUDIA PAVONE
Marcello ALESSANDRO LUONGO
Musetta FEDERICA GUIDA
Colline ANTONIO DI MATTEO
Schaunard SERGIO BOLOGNA
Benoît ANGELO NARDINOCCHI
Alcindoro ALESSANDRO CECCARINI
Parpignol MARCO MONTAGNA
Segente dei doganieri FRANCESCO AURIEMMA
Orchestra, Coro e Coro delle Voci Bianche del Festival Puccini
Direttore Manlio Benzi
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Maestro del Coro delle Voci Bianche Viviana Apicella
Regia Christophe Gayral
Scene Christophe Ouvrard
Costumi Tiziano Musetti da un’idea di Edoardo Russo
Luci Peter Van Praet
Nuovo allestimento Fondazione Festival Puccini
Torre del Lago, 25 agosto 2023
Il primo Puccini è il più insidioso sul piano della messa in scena: ama ambientazioni estremamente specifiche e i diversi librettisti cui si affida si sprecano nell’infarcire i testi di riferimenti metatestuali; così la generica bella vita di Manon Lescaut diventa “trine morbide”, il regalino di Rodolfo a Mimì è una ”cuffietta rosa” e via fino a “Madama Butterfly” compresa. Questa semplice verità dovrebbe sempre venire ricordata ai registi – specie a quelli con meno dimestichezza con la lingua italiana del tempo – quando si accostano a queste opere; poi starà a loro scegliere se consapevolmente spezzare il legame tra scena, parola e partitura, o cercare linee più coerenti; più specificamente, nell’ambito del 69º Festival Puccini, ci riferiamo a Gayral e Ouvrard (entrambi Christophe), che non ci hanno offerto né una “Bohème” nuova (giacché abbiamo almeno la produzione Premio Abbiati 2012 già ambientata all’epoca del Maggio Francese), né una scandalosa (ben più forte quella di Ken Russell dell’84, o anche la recente di Graham Vick), né interessante, poiché tendenzialmente rimane alla superficie della vicenda, invece che sondare interpretazioni profonde. Insomma, una “Bohème” sbagliata, su tutta la linea: le scene di Christophe Ouvrard sono ben fatte, sì, ma scollate dalla narrazione; le luci di Peter Van Praet talvolta arbitrarie (e la luce è un elemento importante in “Bohème”: il lume del primo atto, l’abbagliante rutilio del Momus, il rapporto luce-calore che Mimì non sente più); i costumi poi hanno un che di paradossale, con una Mimì sempre pronta a spogliarsi e una Musetta prima impellicciata, poi a collo alto infine in spolverino bourgeois – e c’è da domandarsi se davvero, per questi costumi, ci sia stato bisogno di un ideatore (Edoardo Russo) e un esecutore (Tiziano Musetti); la regia di Christophe Gayral, infine, trascina l’intero cast in una serie di trovate talvolta non riuscite (tutta la scena con Benoît, confusa, pasticciata e appesantita dalla presenza di sei bambini figuranti), talaltra di dubbio gusto (Mimì che si rolla una sigaretta su “Sì, mi chiamano Mimì” e beve da una fiaschetta per tutto il tempo, Musetta che maltratta un Alcindoro in sedia a rotelle, sfiorando l’abilismo), quando non si arriva al vero delirio: l’ingresso di Schaunard in cui si sparpagliano per la scena mille oggetti che il cast deve recuperare, e che distraggono il baritono dall’attaccare; la folla di Parigi organizzata in una serie di manifestazioni di Destra (con tanto di suore che reggendo uno striscione su cui c’è scritto “Dieu” cantano i notori slogan fascio-cattolici “Latte di cocco! Giubbe! Carote!”); Musetta e Marcello che lavorano in un ristorante cinese; l’ostensione in scena, dopo la morte di Mimì, di cartelli sul cambiamento climatico, con tanto di coro che entra senza costumi appositamente. Purtroppo anche sul piano musicale la produzione solleva molte perplessità, a cominciare dalla direzione del maestro Michele Benzi, che pare tutto impegnato sulla partitura, quasi mai alza la testa: ne risultano parecchie scollature tra scena e buca, oltre che una sostanziale disomogeneità tra i cantanti, che esacerba le notevoli differenze che già presentano. A Claudia Pavone sembra che Mimì non sia particolarmente congeniale: nei primi due atti il fraseggio è assai generico, nei successivi la linea di canto poco varia nei colori, costatentemente sul “forte”. La regia, poi, non aiuta l’interprete, che costruisce una Mimì ingenua e disinvolta, quanto tabagista ed alcolista. Anche Oreste Cosimo è più intrappolato in Rodolfo che padrone del personaggio: una gestualità francamente incomprensibile rovina tutto il duetto del primo atto (con il Do cantato da Rodolfo aggrappato a una scala a pioli), nel secondo sparisce per riapparire squatter in un ristorante cinese e sul finale la sua straziante battuta finale a Mimì si perde nella distribuzione dei cartelli ambientalisti ai vari personaggi. Musicalmente Cosimo c’è: il colore è forse un po’ chiaro per il ruolo, ma il fraseggio è abbastanza curato e gli acuti sicuri – ogni tanto, soprattutto nel primo e nel terzo atto, si abbandona a portamenti poco nobili, ma visto il contesto, non si sa se siano fuori luogo o no. Il Marcello di Alessandro Luongo si contraddistingue per un suono qua e la un po’ opaco, con fiati a volte un po’ in affanno, ma comunque una cura del fraseggio interessante. Riuscitissime invece le prove di Federica Guida e Antonio di Matteo: lei una Musetta limpida e fascinosa, dalla morbidissima linea di canto, lui un Colline dalla voce importante, timbricamente calda (strappa giustamente l’applauso per la “Vecchia zimarra”), entrambi anche scenicamente piacevolmente presenti. Il coro e le voci bianche del Festival, sempre ben rodati, forniscono pure performance coese e di bell’impatto. Una piccola nota conclusiva su Schaunard: conciato come una specie di beatle mendicante e sobbarcato di oggetti nella sua entrata, occorre tributare un piccolo plauso a Sergio Bologna, professionista di lunga e comprovata carriera, che non solo sostiene perfettamente il ruolo sul piano tecnico-vocale (come ci aspetteremmo), ma si presta alle eccentricità della regia come meglio può (tra le quali rientra anche fumare una sigaretta, durante il “Sono andati” del quarto quadro), da vero “veterano” in grado di tenere il passo con un cast di dieci o venti anni più giovane. Ci resta, tuttavia, il dubbio sull’effettivo senso di rispetto (nei suoi riguardi, ma più generalmente anche in quelli di Puccini) che una simile messinscena esprima, giacché questo rilancio in diminutio che sembra assillare taluni registi (per lo più d’oltralpe, ma pure nostrani) non giova agli artisti, all’arte e men che meno a noi, che in quest’arte andiamo cercando spinte elevanti, non sabbie mobili nel quale impantanarci.