Pesaro, Rossini Opera Festival 2023: “Aureliano in Palmira”

Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
“AURELIANO IN PALMIRA”
Dramma serio per musica in due atti di Giuseppe Felice Romani
Musica Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Daniele Carnini e Will Crutchfield
Aureliano ALEXEY TATARINTSEV
Zenobia SARA BLANCH
Arsace RAFFAELLA LUPINACCI
Publia MARTA PLUDA
Oraspe SUNNYBOY DLADLA
Licinio DAVIDE GIANGREGORIO
Gran Sacerdote ALESSANDRO ABIS
Un pastore ELCIN ADIL
Orchestra Sinfonica Gioachino Rossini
Coro del Teatro della Fortuna
Direttore George Petrou
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Produzione 2014, riallestimento
Pesaro, 21 agosto 2023
«Ma … È il Barbiere di Siviglia!», esclama stupefatto uno spettatore dietro di noi, poche battute dopo l’inizio della sinfonia di Aureliano in Palmira al Rossini Opera Festival di Pesaro. Un nume, rossiniano e possente, deve perdonare “il popolo steso al santo altar” del compositore, come dice il coro iniziale dell’opera romano-palmirena, che accede al tempio del suo genio senza neppure un’infarinatura liturgica sulle vicende di alcune partiture. Ma tant’è: questa edizione n. 44 del ROF è tutta di straniamenti, di rimandi interni, di ammiccamenti e varianti d’autore, che trasvolano di opera in opera, di epoca in epoca, dalle vallate dell’Eufrate alla fortezza di Canosso (sic) ai fiordi di Stoccolma. Forse mai tanta difformità storico-geografica è stata recuperata da coerenza stilistica più tenace (e musicalmente più efficace) come quella che Rossini applicò alle sue elaborazioni retoriche e affettive. Aureliano in Palmira è un riallestimento dell’edizione del 2014, ma con interpreti vocali del tutto nuovi; quelli di Aureliano, Zenobia e il Gran Sacerdote, inoltre, sono debuttanti al ROF in un ruolo protagonistico. Ma in questo caso, più del title role, gli autentici protagonisti dell’opera sono i due incrollabili amanti, Zenobia e Arsace, grazie alla bravura degli interpreti. Sara Blanch è un soprano catalano, con molte presenze a Wildbad, che conquista progressivamente il pubblico pesarese, in particolare con la grande scena del II atto, in cui esegue una serie di colorature, abbellimenti e variazioni molto impegnativi con un ottimo risultato. Più che la voce, dal colore brunito e dal timbro non troppo marcato, è la tecnica a rivelarsi impeccabile e adeguata alla tessitura. Raffaella Lupinacci (che nell’Aureliano del 2014 aveva interpretato la parte di Publia) è un Arsace molto convincente: ottima voce, bel timbro di mezzosoprano e tecnica solida, forse le mancano certe nuances di marzialità che il personaggio richiede; a volte si abbandona a qualche esuberanza nell’emissione, ma è segno dell’entusiasmo con cui affronta il ruolo. Non da meno il tenore russo Alexey Tatarintsev, un Aureliano dalla voce non certo tonitruante ma generosa, ardito sin dalle variazioni e puntature della prima cabaletta; nel corso dell’opera si mostra capace anche di mezze voci e sfumature riuscite. È molto bravo anche il secondo tenore, altro giovane cantante, allevato a suo tempo nel vivaio del Viaggio a Reims dell’Accademia Rossiniana, il sudafricano Sunnyboy Dladla nella parte di Oraspe: tornerà certamente a far parlare di sé come interprete rossiniano. Corretto, ma troppo leggero per la parte, il Gran Sacerdote di Alessandro Abis. Tutti quanti, compresi i restanti comprimari, sono tenuti sotto stretto controllo dal direttore greco George Petrou, che concerta l’opera con suono pulito e abbastanza ben sgranato (ma gli archi dell’Orchestra G. Rossini, altre volte, sono stati più precisi), sonorità marcate, ma non eccessive, e – quel che più conta – piglio gagliardo e accenti accurati (quando torna sul podio per il II atto il pubblico gli tributa un apprezzamento non usuale). Molto buona anche la prova del Coro del Teatro della Fortuna, diretto da Mirca Rosciani. Lo spettacolo di Mario Martone di nove anni fa pare funzionare meglio negli ampi spazi della Vitrifrigo Arena che non sul palcoscenico del Teatro Rossini: il labirinto in cui vagano eroi e prigionieri, il clavicembalo sulla scena, le caprette che animano (con bucolica quiete) la scena pastorale, sono tutti elementi di linguaggi paralleli che si integrano a vicenda, grazie sia alle scene di Sergio Tramonti (teli di tulle trattati con sabbia e colore) sia ai costumi dell’espertissima Ursula Patzak. Efficacissimo, pertanto, in uno spazio così vasto, anche il gioco di luci creato da Pasquale Mari. Quest’esecuzione conferma definitivamente che Aureliano in Palmira non è né un’opera minore (nel senso di scritta con poco impegno o con scarsità di risorse musicali) né una partitura depositaria di precedenti scritture (al contrario: è la fonte prima da cui scaturiscono varie architetture del Barbiere, per esempio). L’Aureliano è invece un’opera ambiziosa (elaborata per inaugurare la stagione scaligera 1813-1814) e perciò difficile, molto articolata, sorretta da una scrittura raffinatissima e intellettualistica. Sulla scorta, non troppo fidata, delle prime cronache e critiche, è stato detto che il suo fallimento si debba alla mescolanza di forme antiche e nuove, con un risultato che avrebbe scontentato tutti (Carli Ballola). Ma la ragione non è questa: il linguaggio musicale di Aureliano è complesso e dilatato, alternando “scene di forza” solistiche e numeri d’insieme, inscritti anche l’uno dentro l’altro con pluralità di codici. È probabile che in futuro quest’opera tanto peculiare, che guarda al modello mozartiano della Clemenza di Tito, ma allo stesso tempo prefigura soluzioni personalissime (racchiuse tra il Barbiere e l’estremo Guillaume Tell, per il recupero dell’ambientazione campestre), attiri l’attenzione di studiosi, teatri e pubblici incuriositi, come è accaduto nei decenni scorsi per opere dalla configurazione “anomala” (emblematico il caso della Gazza ladra). Il pubblico del ROF apprezza tutto questo, nonostante la smisurata lunghezza dell’esecuzione, che non cessa di ammannire marce militari e musiche di guerra, scene elegiache, terzetti concitati, cabalette eroiche e romanze di disperazione. Pantagruelico banchetto musicale che – va ricordato – non corrisponde certo a nessuna versione rappresentata ai tempi di Rossini, visto che già la prima fu sconciata da tagli e defaillances della compagnia vocale. Al momento, più che le ragioni strettamente artistiche, prevalgono quelle narrative, mai disgiunte da una presa di posizione politica. Altrimenti, come spiegare la scelta del regista di proiettare durante il coro finale una lunga citazione dal libro di Edward Said, Orientalismo (1978)? Dietro le notizie storiche su Zenobia, dall’Historia Augusta e Trebellio Pollione fino a Zosimo, Martone rimarca che la sua lettura di Aureliano in Palmira va collocata nella cultura del postcolonialismo, di cui proprio il libro di Said (attivista filopalestinese e fondatore insieme a Daniel Barenboim della West-Eastern Divan Orchestra nel 1999) fu un caposaldo.   Foto Amati-Bacciardi © ROF