Bernardo Pasquini (1637 – 1710): “L’Idalma ovvero chi la dura la vince” (1680)

Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Domenico de Totis. Arianna Vendittelli (Idalma), Anita Rosati (Dorillo), Margherita Maria Sala (Irene), Rupert Charlesworth (Lindoro), Juan Sancho (Celindo), Morgan Pearse (Almiro), Rocco Cavalluzzi (Pantano). Innsbrucker Festwochenorchester, Alessandro De Marchi (direttore). Registrazione: Haus dei Musik Innsbruck, 03-10 agosto 2021. 3 CD CPO 555 501-2
L’edizione 2021 delle Settimane di musica antica di Innsbruck ha posto al centro dell’attenzione la musica vocale di Bernardo Pasquini, compositore toscano di origine – era nato a Massa nel 1637 – ma romano per adozione e cultura. Noto oggi principalmente per le sue composizioni per tastiera Pasquini era al tempo apprezzato in primo luogo per le composizioni vocali con un gran numero di titoli tanto sul versante dell’opera quanto in quello dell’oratorio e della musica sacra.
Pasquini viene inoltre a rappresentare insieme e per certi aspetti ancor più di Stradella (morto nel 1682 mentre Pasquini restò in vita fino al 1710) quell’importante fase di transizione nella storia del melodramma compresa tra la fine della stagione del recitar cantando – di cui Cesti e Cavalli furono gli ultimi diretti interpreti – e le nuove forme dell’opera barocca settecentesca il cui pieno dispiegarsi si può affiancare agli anni romani di Händel. Una stagione molto importante ma ancora poco conosciuta su cui si comincia a far luce.
La commedia in tre atti “Idalma ovvero chi la dura la vince” andata in scena a Roma nel 1680 è significativo esempio di questa stagione pur rimanendo per molti aspetti ancora ancora allo stile secentesco sia sul piano musicale che su quello drammaturgico.  L’opera infatti pur potendosi definire formalmente una commedia – del tipo di cappa a spada caro al gusto spagnolo – si presenta come una riuscita fusione di elementi comici e seri, patetici e grotteschi, alti e bassi secondo un gusto della varietas che ancora affonda le sue radici nell’opera di tradizione monteverdiana e in cui non compare ancora quelle più rigida divisione per generi che sarà imperante nel nuovo secolo.
Una concezione simile si ritrova anche sul piano musicale. L’impostazione di fondo appare ancora molto legate ai moduli del recitar cantando pur affermandosi al suo interno un gusto per arie più definite e per un canto maggiormente propenso al virtuosismo. Colpisce in quest’opera una non comune libertà formale, un trapassare ininterrotto delle forme senza nitide ripartizioni. I recitativi si allargano in squarci melodici a volte non privi d’impennate virtuosistiche, le arie si semplificano fino all’arioso e al declamato. Siamo all’antitesi del rigido sistema formale che si affermerà negli anni successivi.
La partitura è documentata in un unico manoscritto conservato presso la Bibliothèque National de France e partendo da questo Alessandro De Marchi ha sviluppato la propria versione da portare in scena. Di fronte a testimonianze di questo tipo due possono essere le linee esecutive una più rigorosa (alla Hickox) che considera quella disponibile come l’unica partitura possibile e la esegue in modo rigoroso attenendosi alla lettera del manoscritto disponibile e quella che ritiene che alcuni elementi – soprattutto quelli relativi all’orchestrazione – potessero adattarsi alle diverse occasioni e considera legittimo poter agire al riguardo. De Marchi opta decisamente per la seconda ipotesi mettendo in campo un organico strumentale particolarmente ricco ripartito in concertino e concerto grosso arricchito da una buona presenza di percussioni. Il risultato può lasciar qualche dubbio sul terreno della correttezza filologica dell’operazione ma imprime al tutto una brillantezza e un passo teatrale molto coinvolgenti.
La compagnia di canto vede il comparto femminile composto da cantanti italiane capace di sfruttare la naturalezza linguistica a scopo espressivo e la parte maschile – con l’esclusione del basso buffo nel ruolo del servo Pantano – straniero cui manca questa naturalezza. Anche sul piano della padronanza stilistica la parte femminile del cast risulta di gran lunga superiore.
Splendida protagonista Arianna Venditelli nel ruolo del titolo. Voce di soprano lirico luminosa ma non priva di corpo e morbidezza che si adatta alla perfezione al tono elegiaco del personaggio, dizione impeccabile, grande facilità nel canto di coloratura. Il risultato è un personaggio perfettamente centrato sia sul piano espressivo che su quello musicale, prestazione culminante nell’esecuzione della grande aria del terzo atto “Chi di tanti miei martiri” uno dei momenti musicalmente più ispirati della partitura resa in modo esemplare.
Pari qualità mostra l’Irene di Margherita Maria Sala voce scura e profonda da autentico contralto ma sempre morbida e controllata, pulitissima nei passaggi di bravura – che non mancano neppure nella sua parte – e sempre intensa sul versante espressivo. Completa il terzetto femminile Anita Rosati soprano leggero brillante e spigliato perfettamente a suo agio nei panni del paggio Dorillo. Tra gli interpreti maschili l’unico che si ponga a pari livello è Rocco Cavalluzzi nei panni del servitore Pantano affrontato con bella voce di basso ma soprattutto con gusto e senso dello stile, riuscendo a tratteggiare alla perfezione un personaggio divertente ma mai eccessivo, portavoce di un buon senso popolare che spesso manca ai personaggi nobili. Semplicemente irresistibile nella canzone napoletana “Belle zite non credite” dove ha la possibilità di far brillare al meglio le sue doti.
Meno convincenti sono invece gli interpreti dei personaggi nobili maschili. Il migliore tra loro ci è parso Juan Sancho come Celindo. Tenore di grazia delicato e leggero – fin troppo per certe frasi di forza soprattutto nel III atto – ma musicale ed elegante con un gusto nel porgere che compensa una certa zuccherosità del timbro.
Rupert Charlesworth (Lindoro) è vocalmente più solido ma il timbro è meno piacevole e la dizione e il fraseggio italiano gli sono sostanzialmente alieni così che il risultato finale risulta essere una prestazione corretta sul piano meramente vocale ma carente di espressività e di vita teatrale. Problema per certi versi opposto per il baritono Morgan Pearse (Almiro) dotato della voce più interessante tra i tre. Purtroppo il suo rapporto con lingua ed emissione italiana è altrettanto problematico di quello di Charlesworth mentre sul versante espressivo la ricerca di una maggior vivacità lo porta spesso ad esagerare un fraseggio che risulta caricato e sopra le righe.