100° Arena di Verona Opera Festival 2023
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry JESSICA PRATT
Alfredo Germont FRANCESCO MELI
Giorgio Germont LUDOVIC TÉZIER
Flora Bervoix SOFIA KOBERIDZE
Annina YAO BOHUI
Gastone MATTEO MEZZARO
Barone Douphol NICOLÒ CERIANI
Dottore Grenvil GABRIELE SAGONA
Marchese d’Obigny ROBERTO ACCURSO
Giuseppe FRANCESCO CUCCIA
Un domestico di Flora / Un commissionario STEFANO RINALDI MILIANI
Primi ballerini LIUDMILA KONOVALOVA, DAVIDE DATO
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Paolo Mazzon
Coreografia Giuseppe Picone
Verona, 19 agosto 2023
Alla presenza di un anfiteatro pressoché al completo, torna in scena l’ultima traviata di Franco Zeffirelli, spettacolo di apertura del festival areniano 2019, a pochi giorni dalla scomparsa del grande regista, che ne firmò scene e regia. A distanza di qualche anno, la produzione conferma la sua magnificenza e la buona aderenza al libretto, restituendo un allestimento visivamente soddisfacente e, a prima vista, abbastanza convenzionale, i cui connotati registici stentano quasi a emergere. Questo perché la chiave di lettura non è demandata allo svolgersi della trama, ma è già davanti ai nostri occhi fino dall’inizio, solo che per coglierla bisogna tornare alla prima proposta di titolo dell’opera (“Amore e morte”) e alla sua ambientazione originaria (l’Ottocento). Ed ecco che subito si comprende come quel teatro ottocentesco abbracci le scene per mescolarci col pubblico di allora, con quell’ipocrisia borghese che condannava i sogni proibiti dalla condizione di Violetta o, ancora, come sia la morte, più che l’amore, a guidare l’intreccio. Una morte che divide, che si aggancia alla sezione più mesta del preludio per rimarcare come il funerale della protagonista isoli Alfredo, lasciando un vuoto solo in chi è stato capace di amare; una morte che è l’epilogo di una malattia nascosta alla moltitudine e confinata in solitaria alle fosche atmosfere a cui le luci di Paolo Mazzon relegano la sezione superiore della scena del primo e del terzo atto. È quello, infatti, il regno della Violetta “solitaria”, che a poco a poco alimenta quel lato eroico del personaggio che permetterà a Verdi di dare maggiore immortalità alla vicenda rispetto all’originario dramma di Dumas. L’immedesimazione col soggetto è, poi, accentuata dai particolareggiati costumi d’epoca di Maurizio Millenotti e particolarmente calzante è stata la scelta di vestire di “bianco camelia” Violetta durante festa del secondo atto, a sottolineare l’innocente purezza del personaggio. Il rigore descrittivo delle vesti ben si confà all’impatto visivo del divertissement coreutico del secondo atto, allietato dai volteggi dei primi ballerini Liudmila Konovalova e Davide Dato, all’interno delle brillanti coreografie di Giuseppe Picone. La fruibilità delle scene d’insieme era, infine, accresciuta dai diligenti interventi del coro di Roberto Gabbiani, molto sensibile anche ai dettagli dell’azione, che ha in parte sopperito a una certa inerzia del direttore nel rimarco di contrasti cromatici, stagliando crescendo e chiuse di sicuro effetto. La direzione di Andrea Battistoni mancava, infatti, di un maggiore scavo introspettivo e di un’agogica che non ha sempre colto gli improvvisi sbalzi emotivi dei malati tisici, di cui è intrisa la partitura; l’orchestra, dal canto suo, sembrava assimilare a stento le concitate movenze del direttore e si è messa in luce con qualche smorzamento particolarmente funzionale al dramma nel preludio e nel finale, ma senza riuscire a bilanciare l’eccessiva dilatazione dei tempi. Il risultato è stato quello di una resa dalle sonorità contenute e sicuramente rivolta alle esigenze degli interpreti, che ha più volte stemperato la tensione emotiva. Sul piano vocale, l’Alfredo di Francesco Meli è oramai così reiterato da non accorgersi di un approccio piuttosto esibizionistico e avvezzo a crogiolarsi su tempi ampi, a scapito del vivido ardore del giovane innamorato. L’impronta lirica del tenore genovese rimane indiscussa, ma sfuggente alla messa a punto di alcuni passaggi più tecnici che, oltre a qualche insicurezza negli abbellimenti del brindisi, gli sono costati mezze voci dall’emissione più nasale e sfoghi in acuto di una certa faticosità. Abbastanza omologato anche il Germont padre di Ludovic Tézier, il cui nobile timbro impiega buona parte della sezione col soprano per raggiungere la sua usuale rotondità. Pacato ed elegante, la sua impostazione si addirebbe più a uno Scarpia che a un Germont, la cui evoluzione rimane frenata da un fraseggio non privo d’intenti, ma inscritto in una resa perlopiù statica. A chiudere la triade delle parti principali, la prima Violetta in Italia di Jessica Pratt, accorsa all’ultimo per una sostituzione. La cantante si presenta in scena con grande motivazione e determinata a misurarsi integralmente col ruolo, senza rifugiarsi in variazioni acute della parte. Qualche ritardo negli attacchi e piccole amnesie nel testo tradiscono una certa tensione del soprano, confermata da volate virtuosistiche più rapide del consueto, da un Mib sovracuto in chiusura al di sopra della media, ma meno “in avanti” rispetto al suo solito, e da un fraseggio saltuariamente frettoloso, poco incline a saggiare il sensuale carisma della cortigiana nel dispiegarsi delle evocative frasi di centro. La sua Violetta, del resto, sa di non poter essere troppo incisiva sui centri a piena orchestra, dando l’impressione di una giovane remissiva e disillusa, allucinata dalla negatività degli eventi, verso un progressivo allontanamento della mente. Un approccio forse troppo ereditato dalle numerose esecuzioni di “Lucia di Lammermoor” e che fa della sua prova un significativo punto di partenza, più che d’arrivo. Ciononostante, l’interprete riesce già a portare a termine un commovente terzo atto, dove l’ “Addio del passato” strabilia per la facilità nell’emettere variegate modulazioni cromatiche, senza mai intaccare il singolare nitore della linea di canto e l’ineccepibile controllo dei legati. Valido il ventaglio delle parti secondarie, dove facevano bella mostra di sé la schietta Flora di Sofia Koberidze, sonora sulla quasi totalità della gamma, la limpida Annina di Yao Bohui e il risoluto marchese d’Obigny di Roberto Accurso. Ben collocati anche gli interventi di Matteo Mezzaro come Gastone, mentre meno tonico è apparso il contributo del Douphol di Nicolò Ceriani. Completavano diligentemente il cast Francesco Cuccia (Giuseppe), Stefano Rinaldi Miliani (commissionari e domestico di Flora) e il torvo Grenvil di Gabriele Sagona. Dopo aver più volte interrotto inopportunamente la recita con applausi fuori posto (lautamente concessi dal direttore), al pubblico dell’Arena non sono, infine, mancate le energie per confermare l’apprezzamento verso tutte le maestranze coinvolte, con particolari plausi per gli interpreti principali. Foto Ennevi per Fondazione Arena