100° Arena di Verona Opera Festival 2023
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re SIMON LIM
Amneris OLESYA PETROVA
Aida MARIA JOSÉ SIRI
Radamès YUSIF EYVAZOV
Ramfis MICHELE PERTUSI
Amonasro AMARTUVSHIN ENKHBAT
Un messaggero RICCARDO RADOS
Una sacerdotessa DARIA RYBAK
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia, scene, costumi, luci e coreografia Stefano Poda
Verona, 17 giugno 2023
Dopo la versione minimalista di Zeffirelli proposta tra luci ed ombre al Filarmonico qualche mese fa, il capolavoro verdiano si riprende lo spazio estivo nell’anfiteatro romano con un nuovo allestimento kolossal su cui erano riposte molte aspettative. Qualcosa di nuovo ed alternativo ad allestimenti considerati ormai datati. La prima impressione che desta questa messa in scena è di vivere un’allucinazione, un’eccitazione dionisiaca che però sembra non viaggiare nell’introspezione bensì punta a stupire con effetti speciali, proiezioni laser, luci da discoteca e pannelli riflettenti condannando all’oblìo la vera essenza drammaturgica dell’opera. Nelle sue note di regìa, Stefano Poda definisce Aida “come un viaggio dantesco che parte dall’interno e arriva alla pace di una visione estatica” attraverso una serie di messaggi che parlano a tutti; istruisce il pubblico su ciò che vedrà in scena ma senza un chiaro e diretto significato, forse comprensibile solo a lui. Un lavoro, questo, che risulta ancora più inquitante se deve additare la via dell’opera alle nuove generazioni alle quali basterà lasciarsi soggiogare da una fantascienza prestata al teatro lirico che accontenta l’occhio ma non va oltre l’inganno ottico e visivo. La prima difficoltà è dunque quella di decifrare l’idea registica che non si pone nel solco della tradizione ma neanche in quello della provocazione, tanto meno nella rilettura in chiave politica e sociologica. Ogni tentativo in tal senso converge sempre sulla prima impressione: poca sostanza narrativa, con idee confuse e per nulla connesse tra di loro, cosa assai sconcertante se pensiamo che Poda ha lavorato praticamente da solo firmando regìa, scene, costumi, luci e coreografie. L’impianto scenografico poggiava su un praticabile di metallo e plexiglass sovrastato da una mano gigantesca, simbolo (sempre secondo le note di regìa) del potere in grado ora di creare, ora di distruggere: altre mani più piccole, montate su lance, ne rappresentano la multifunzionalità nel bene e nel male poiché se l’uomo costruisce, produce ed innalza può anche abbattere e rovinare. Il resto della scena era rappresentato da una colonna greca frantumata ed alcuni rottami indefiniti come paradigma di un uso nefasto della tecnologia applicata alla guerra ed alla vocazione umana all’autodistruzione. Il richiamo all’antico Egitto si riduce a delle proiezioni laser che disegnano delle piramidi virtuali, qualche copricapo con testa di sciacallo, l’occhio egizio disegnato sui costumi e una grande palla argentata. Ben poca cosa per Aida, soprattutto all’Arena di Verona. I costumi, ora bianchi, ora sgargianti erano sicuramente riconducibili ad un tentativo di indagine psicologica nella quale non proviamo nemmeno ad entrare, così come le luci talora accecanti. Le coreografie muovono da un concetto personale di ritualità con incedere lento dei figuranti in una ricercata atmosfera di fumo e incenso. In sostanza abbiamo assistito ad uno spettacolo denso di simbologie ed allegorie comprensibili solo al regista ma oggettivamente distanti dalla vicenda, il libretto e le didascalie di Verdi e Ghislanzoni. Un lavoro autoreferenziale ed interscambiabile la cui presunta universalità lo rendebbe riciclabile per altri titoli operistici; ulteriore dettaglio, a tal proposito, è la risolta diatriba sul black face poiché qui egiziani ed etiopi sono tutti di pelle bianca. I momenti migliori, paradossalmente, sono proprio quelli in cui la mano di Poda si ferma per lasciare finalmente gli interpreti in condizione di poter interpretare autonomamente e senza interazioni ingombranti, come nella struggente Ritorna vincitor! Se la componente visiva ha sostanzialmente deluso per la mancanza di un filo conduttore ed una serie di idee soltanto abbozzate ma prive di collegamento, decisamente meglio è andata sul versante musicale se non fosse per il rammarico di vedere una compagnia di canto con due sole voci italiane (Ramfis e il Messaggero). Nel ruolo della protagonista, Maria José Siri si conferma come interprete autorevole dotata di fascino e carisma con un grande controllo dello strumento ed un bel timbro morbido non privo tuttavia di qualche forzatura notata qua e la. Radamès era Yusif Eyvazov, reduce dalla recita della sera prima trasmessa dalla Rai in Mondovisione nella quale aveva cantato a fianco di Anna Netrebko: non possiamo che riportare l’impressione avuta lo scorso anno e cioè quella di un timbro vocale poco gradevole, rude e spesso privo di finezza ma ingentilito da una linea di canto robusta, tenuta vocale e buon fraseggio: nella celebre aria di sortita riesce anche a sfumare il si bemolle ma la ricerca delle mezze voci rischia di sfocare la zona acuta. Difficoltoso parlare dell’Amneris di Olesya Petrova: se la voce convince nel registro acuto, in quello medio grave risulta disomogenea con suoni forzati e gonfiati ed una linea di canto tendente al verismo mascagnano che oltretutto rende talvolta incomprensibili le parole. Buona però la sua prestazione nel IV atto dove la principessa egizia perde tutte le sue certezze per lasciarsi andare ad una disperata rassegnazione. Sul fronte delle voci gravi maschili abbiamo il sicuro e stentoreo Amartuvshin Enkhbat quale Amonasro, in grado di reggere il doppio confronto tra la veemenza del re guerriero e la paterna devozione verso la figlia; una devozione imbarbarita dal necessario richiamo alla figlia per ricordarle i suoi doveri verso la patria. Il Re di Simon Lim è un faraone dal timbro corposo che possiede un bel legato e sicurezza vocale mentre il sicuro e navigato Michele Pertusi conferma la sua grande statura vocale anche se preferibile in ben altro repertorio: il suo Ramfis, pur generoso nella vocalità, risulta poco autorevole e, in tutta franchezza, generico. Mancano all’appello il messaggero di Riccardo Rados, già presente nelle recite al Filarmonico, che porta a casa la recita con onore e la corretta prova di Daria Ribak come sacerdotessa. Marco Armiliato a cui è toccato il difficile compito di far quadrare il bilanciamento tra golfo mistico e palcoscenico, risolve il suo compito con la sicurezza e professionalità che gli riconosciamo ma fornisce un’esecuzione generica, priva di mordente e di colore orchestrale; sostanzialmente si è limitato a far funzionare gli insiemi e ad accompagnare le voci, compito che peraltro gli riesce molto bene. Onesta e funzionale la prova del coro diretto dall’esperto e navigato Roberto Gabbiani. L’allestimento avrà probabilmente vita lunga e resterà per qualche anno nella programmazione areniana; come ebbe a dire lo stesso Verdi, “Il tempo giudicherà”. Repliche il 25 e 29 giugno, il 9, 16, 21 e 30 luglio, il 2, 18 e 23 agosto e il 3 e 8 settembre. Foto Ennevi per Fondazione Arena