100° Arena di Verona Opera Festival 2023
“AIDA”
Opera in quattro ati di Antonio Ghislanzoni
Musica Giuseppe Verdi
Il re d’Egitto SIMON LIM
Amneris, sua figlia OLESYA PETROVA
Radamès YUSIF EYVAZOV
Aida ANNA NETREBKO
Amonasro ROMAN BURDENKO
Ramfis MICHELE PERTUSI
Una sacerdotessa FRANCESCA MAIONCHI
Un messaggero RICCARDO RADOS
Orchestra, coro e ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Marco Armiliato
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia, scene, costumi, luci e coreogrfia Stefano Poda
Verona, 16 giugno 2023
Si brinda al 100° anniversario della tradizionale Stagione Lirica Areniana, oggi ribattezzata Arena di Verona Opera Festival, che dai suoi primi esordi ha richiamato a gran voce orde di curiosi, turisti di passaggio e imperterriti melomani da ogni dove. Chissà se Giovanni Zenatello avrebbe mai immaginato che la sua idea di portare l’opera lirica all’interno dell’anfiteatro romano all’aperto più grande del mondo potesse giorno raggiungere un così grande traguardo. Era il 10 agosto del 1913 quando il tenore veronese scelse di inaugurare la prima edizione del Festival nella città scaligera con la rappresentazione di «Aida» di Giuseppe Verdi attraverso la visione eclettica immaginata dall’architetto Ettore Fagiuoli. Dopo 100 anni di stagioni operistiche non poteva che essere ancora Aida ad inaugurare un cartellone lirico con questa nuova produzione. Una scelta che non sorprende per un emblema dell’opera areniana, ma che porta in sé l‘eredità del passato glorioso che noi tutti abbiamo conosciuto e amato. Dalle parole “Oggi possiamo portare l’Arena di Verona a tutti” della sovrintendente Cecilia Gasdia con cui, in conferenza stampa, ha annunciato la diretta mondovisione, condotta da Milly Carlucci con la partecipazione di Alberto Angela e Luca Zingaretti, l’attesa mediatica per questa prima è altissima come la preoccupazione per un prodotto puramente televisivo. Come una gran signora, l’Arena si mostra per l’occasione “tirata a lucido” per non sfigurare davanti alle 19 telecamere in alta definizione della Rai pronte per coglierne da vicino ogni minima “ruga” di espressione. Doveroso lo sfavillio da red e blue carpet (evidentemente il solo rosso non attirava più) per una serata di questa portata che porta, (purtroppo), a Verona i soliti politici, gli inutili personaggi televisivi provenienti perlopiù dalla vicina Milano e la mondanità “parvenu” a cui La Scala ci ha abituato. Su ogni pietra riscaldata dal sole si percepisce il peso della storia e negli applausi del pubblico rivivono i fasti imperiali con una (fugace) apparizione “mariana” della madrina Sophia Loren, icona che più di tutte dà il senso dell’Italia nel mondo. Una standing ovation, per la due volte premio Oscar sulle note del tema di “Nuovo Cinema Paradiso” di Ennio Morricone, interrotta, al posto del consueto gong, dalla sfilata sulle nostre teste delle Frecce Tricolori. Qualche goccia di pioggia porta un momento di panico nell’anfiteatro. Fortunatamente è un “impasse” di breve durata e, finalmente, attorno alle 21.30 si può iniziare. Già al primo impatto ci si rende conto che la trama e di conseguenza il libretto è puramente una tela bianca su cui costruire sopra tutt’altra storia. L’allestimento sci-fi, interessante per le trasparenze del palcoscenico con gabbia del praticabile a vista, si trasforma con l’utilizzo smodato di fumo e luci laser in una discoteca anni ottanta. La liturgia e la ricerca dei simboli, tipica del regista, è qui indecifrabile con elementi criptici a cui non viene dato dovuto risalto, come le gigantesche dita che oltre a muoversi non assumono un senso drammaturgico nella storia o il rottame elettrico e i pezzi di colonna corinzia che sembrano letteralmente buttati sulla gradinata ai lati del palco. Per quanto si possa apprezzare il lavoro internazionale di Stefano Poda, sulla carta questo progetto poteva avere grandi possibilità, forse perse nella sua effettiva realizzazione, al limite dell’ossessione simbolista. Voluto o non voluto, non si saprà mai, lo spettatore viene catapultato in un Antico Egitto da “Febbre del sabato sera”. Piramide “rubata” al Louvre e sfera specchiata a parte, sono veramente di grande impatto le luci che accompagnano questo viaggio psichedelico che manda ogni volta il pubblico in visibilio. Sorprendente è l’apertura del secondo atto con mummie e imbalsamatori intenti a bendare salme. Una scena degna di uno speciale di Angela, a cui si affianca la presenza di due costosissime piattaforme montacarichi utilizzate ora sotto come tombe e nel finale come appoggio per la piramide. Segue un trionfo alla “Studio 54” con sfolgoranti luci che emozionano un pubblico in preda ad un accecamento collettivo, spiccano gli abbaglianti costumi argentati che durante la coreografia creano un piacevole effetto metallico che impreziosisce sonoricamente la scena. La regia è complicata a livello semantico, i gruppi di trecento mimi e i coristi si ritrovano in quasi ogni scena a formare un grande agglomerato di corpi umani, suggestivo in alcune scene, ma confuso, nella totalità dell’opera. Il kolossal mette completamente in secondo o terzo piano il capolavoro di Verdi mentre quella parte di pubblico neofita che non ha capito nulla e che si trova qui per la prima volta impazzisce alla vista del corridoio di corpi dall’abbigliamento bondage, il luccichio “bling bling” e gli effetti stroboscopici. Annullando il realismo verdiano, ci si chiede sempre di più il motivo delle scelte adottate in questa dispendiosissima e non particolarmente ammortizzabile produzione che non soddisfa minimamente la platea tradizionale areniana, ma forse quella televisiva è di altro parere. Non sarà certo questa l’Aida che resterà scolpita nella memoria. Si può ricordare e apprezzare lo sforzo di portare in scena una contemporaneità che manca e a cui il pubblico areniano si dovrà prima o poi abituarsi. Sono passati 100 anni e, per quanto possa mancarci il lavoro dei grandi maestri e artisti del passato, non dobbiamo gattopardianamente dimenticare che occorre che tutto cambi perché nulla cambi. Soddisfa sicuramente questa prova di Poda rispetto all’improvvisato regista Antonio Albanese, una scelta artistica del tutto fuori luogo considerata l’importanza dei festeggiamenti di quest’anno (non si gioca in Arena, se si va di esperimenti esiste il Filarmonico). Al “povero” Maestro Marco Armiliato, prediletto dalla signora Netrebko, il compito, arduo, ti portare in porto la parte musicale dello spettacolo. Armiliato tiene in piedi lo spettacolo senza particolari guizzi interpretativi, azzardiamoci a dire con un certo sentore di routine e senso di noia dalla quale sembrano trarre benificio i cantanti. La più attesa è sicuramente “divina” Anna Netrebko. Il celebre soprano russo vocalmente non ci appare in forma smagliante, ma poi si “riscalda” e, dall’atto del Nilo, trova la sua dimensione più autentica. Accanto alla voce solida, morbida, ben proiettata, un fraseggio sufficientemente raffinato, rapinosi “filati”, compreso il do in pianissimo di “O cieli azzurri”. Sul piano interpretativo la Netrebko ci sembra emotivamente poco partecipe, forse una colpa dettata dalla monotonia del ruolo visionario che le è stato cucito per l’occasione, ma a tratti esce come lo sfogo di un animale in gabbia per regalare allo spettatore qualche attimo di intima e assoluta sensazione di leggerezza. Il “prendi due paghi uno” non funziona nel caso della coppia Netrebko-Eyvanoz il cui acquisto in coppia risulta sempre sfavorevole e per un evento di tale portata forse si poteva ben pensare ad altri nomi da mettere in cartellone. Va riconosciuta al tenore Yusif Eyvazov la crescita artistica degli ultimi anni e lo sforzo nell’affrontare determinati ruoli ingombranti. Nonostante la buonissima tenuta vocale e il fraseggio che da sempre lo contraddistingue, a partire da “Celeste Aida” la vocalità del tenore azero rivela problematiche difettando in disomogeneità e messa a fuoco e nella varietà di accenti privando totalmente la voce di profondità. Il suo Radames è assai e piatto da risultare apatico, privo di personalità (scelta registica?). Convince scenicamente di più l’Amneris di Olesya Petrova. Anche lei all’inizio ci appare “dimessa”, ma dal duetto con Aida del secondo atto entra nel personaggio pur mettendo in luce una vocalità disomogenea: è soprattutto il registro medio-grave e il fraseggio a non essere particolarmente a fuoco. Le cose vanno meglio nel registro acuto se pur con qualche asprezza. Dell‘Amonasro di Roman Burdenko, potremmo dire “non pervenuto”, tanto ci è parso vocalmente e scenicamente senza “appeal”. Forse la pressione per il centenario ha messo a dura prova gli artisti? Soddisfacente il Re del basso Simon Lim per la voce corposa e ben timbrata in contrapposizione del Ramfis dell’inossidabile, ma vocalmente un po’ provato, Michele Pertusi che mostra la consuetà espressività scenica. Impeccabile gli interventi del Messaggero di Riccardo Rados e della Sacerdotessa di Francesca Maionchi. Lode meritata al coro areniano diretto dal maestro Roberto Gabbiani che sorprende nonostante il caos generale. Alla fine, attorno all’una di notte, per Aida e Radamès si “schiude il ciel”, gli applausi risuonano copiosi, con qualche isolato segno di contestazione (ma adesso i fischi non si sa bene cosa vogliono dire!) e così il primo “rito” del centenario areniano si è compiuto. Foto Ennevi per Fondazione Arena