Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – LXXXV Festival del Maggio Musicale Fiorentino
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito, dalla tragedia “Othello, the Moor of Venice” di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello ARSEN SOGHOMONYAN
Jago LUCA SALSI
Cassio JOSEPH DAHDAH
Roderigo FRANCESCO PITTARI
Lodovico ADRIANO GRAMIGNI
Montàno EDUARDO MARTÍNEZ
Un araldo MATTEO MANCINI
Desdemona ZARINA ABAEVA
Emilia ELEONORA FILIPPONI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Sara MatteucciDirettore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Maestro del coro di voci bianche Sara Matteucci
Regia Valerio Binasco ripresa da João Carvalho Aboim
Scene Guido Fiorato
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Pasquale Mari
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 23 maggio 2023
A distanza di oltre due anni dall’originaria diretta Rai 5 dell’era Covid, passando per rinvii e significativi cambi di cast, l’Otello di Valerio Binasco (ripreso da João Carvalho Aboim) vede finalmente la luce del sole. La scena di Guido Fiorato si apre su una città devastata e sotto assedio, plasmata non tanto dai numerosi marchingegni bellici, quanto da ciò che “non si vede”. Sono, infatti, quei meandri occulti, nella cui penombra aleggia l’inquietudine di un’atmosfera insidiosa, a guidare una vicenda che il regista ci avvicina per quanto più possibile. Ne sono conferma i confronti tra i vari personaggi, che a eccezione del primo duetto d’amore sono circoscritti da vani semoventi, come a documentare la facilità con cui le infide trappole del mondo esterno possono contagiare i luoghi più intimi e “sicuri”. Concorrono all’attualizzazione anche i costumi di Gianluca Falaschi, con donne che sembrano uscite da “the Great Gatsby’’ e soldati che vestono le fredde uniformi della prima guerra mondiale. Per il resto lo spettacolo non vanta particolare dettaglio registico, ma continua a essere sostenuto da alcune idee calzanti. La trovata di far soffocare Desdemona col fazzoletto incriminatorio e quella di nascondere il pugnale che Otello utilizzerà per trafiggersi all’interno di un ciondolo col crocifisso, evocazione di un ricongiungimento d’amore possibile solo nei cieli, ne sono due significativi esempi. L’ultimo atto porta anche a convergenza le luci di Pasquale Mari, un po’ sottotono dopo la funzionale scansione dei baleni della tempesta, ma qui pronte a materializzare gli oscuri presagi di Desdemona. D’effetto, in tal senso, la tenebrosa modulazione della luce che segna l’entrata di Otello in camera da letto. Per il pubblico di Firenze Zubin Mehta è un’istituzione, da omaggiare con lunghi applausi finali, ma lo è altrettanto per il coro (Lorenzo Fratini), il coro di voci bianche (Sara Matteucci) e l’orchestra del Maggio, con i quali mostra profonda coesione. Ciò ha reso possibile un’orchestrazione più vibrante del solito nelle scene d’insieme, sensibile alla singolare caratterizzazione della burrasca, alla cromatura degli aspetti popolareschi e ai clangori orchestrali al servizio del dramma, esaltando con mano esperta l’alta capacità descrittiva di Verdi. La stessa bacchetta non ha avuto altrettanta intesa nei momenti di più marcata intimità, dove il dualismo tra dimensione pubblica e privata è ben emerso dalla tenue filigrana orchestrale, ma con tempi di una dilatazione tale da mettere più volte a rischio l’esecuzione degli interpreti. Sui generis la terna dei primari, più concentrata a dimostrare il possesso dell’estensione richiesta dai ruoli, che ai loro tratti distintivi. Primo fra tutti lo Jago di Luca Salsi, deciso a risolvere il personaggio con un’ulteriore applicazione della collaudata gamma da risonante baritono verdiano, incentrata sull’uso della parola. Con abilità mimetica, l’artista insinua il dubbio con smorzamenti e mezze voci, balza su toni di giubilo e sminuzza il fraseggio con meticolosità, noncurante d’incorrere in inflessioni nasali, fissità di suono, brusche aperture vocaliche sui gravi e abbellimenti approssimativi. Tesse la sua tela senza mai sporcarsi le mani, con un’eleganza che ben si confarebbe al ruolo di Scarpia, ma non necessariamente a Jago, la cui più spicciola incarnazione del male si manifesta perlopiù nell’atteggiamento schernitore che fa da sfondo al monologo di Otello di fine secondo atto. Faceva da contraltare la Desdemona di Zarina Abaeva, soprano lirico dallo screziato timbro russo, tanto più rotondo all’alzarsi della tessitura. Le erano d’ostacolo una certa impacciataggine scenica, qualche licenza nel fraseggio e uno strumento vocale messo maggiormente alla prova sulle fosche discese della parte, che la cantante prepara con qualche presa di fiato di troppo. È mancata anche qualche frase di maggiore abbandono, ma il soprano ha saputo trovare le soluzioni coloristiche atte a restituire l’ipnosi guardinga della scena solistica di Desdemona. Pure Arsen Soghomonyan rinuncia al ventaglio di espressioni di uno dei ruoli tenorili più approfonditi da Verdi, non appartenendo né alla schiera di Otello di pura forza, né a quella che ne dà una lettura più introspettiva. Se il tarlo della gelosia si sfoga in qualche accento di maggiore incisività, accompagnato da sicuri passaggi al registro di testa, la delicata natura dello strumento vocale gli suggerisce di non abbandonare l’equilibrio del mezzoforte, giacché maggiore spinta in acuto e tentativi di rinforzo negli affondi a poco sono valsi, se non a disperdere la compattezza di suono. Tra gli altri ruoli spiccava il timbro romantico di Joseph Dahdah, al punto da rendere verosimile il tradimento ordito da Jago. Il tenore libanese ha gusto nel fraseggio e innatismo scenico, lasciando giusto a qualche acuto dal minor sostegno i postumi dell’indisposizione annunciata all’inizio della rappresentazione. Discreta disinvoltura attoriale anche per l’Emilia di Eleonora Filipponi, i cui caldi accenti mirano a scrutare con astuzia il pensiero del marito, benché il contenuto volume vocale produca un “Otello uccise Desdemona!” più vicino a una riflessione che a un vero richiamo d’allarme. Completavano diligentemente il cast il collaborativo Roderigo di Francesco Pittari, l’autorevole Lodovico di Adriano Gramigni e il sopraffatto Montàno di Eduardo Martínez.