Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2022/23
“L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO”
Testo e Regia di Davide Sacco
Paolo Veres LINO GUANCIALE
Giornalista FRANCESCO MONTANARI
Scene Luigi Sacco
Luci Andrea Pistoia
Aiuto Regia Claudia Grassi
Organizzazione Ilaria Ceci, Luca Cosimelli
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, LVF, Teatro Manini di Narni
Napoli, 9 maggio 2023
La crudeltà è un atto di estrema condivisione. Dinanzi a quest’affermazione, chiunque smarrirebbe la ragione. Ci vuol poco a perdere la testa, anche perché «non c’è nulla di più contagioso del male», come Pasolini fece dire ad uno dei quattro Potenti di quell’enorme affresco cinematografico vagamente decadentistico che è Salò-Sodoma. Soltanto che, ne L’uomo più crudele del mondo di Davide Sacco, le «Centoventi giornate», al Bellini, trovano sinteticamente «collocazione» in una pragmatica e realistica giornata… anzi, no: in un’ora. Quest’ora ha un suo ritmo, tutto nevroticamente accelerato… ha dei momenti che potremmo definire come narrativamente «realistici»… ma che, per uno strano e potente carattere «macchinistico» – non meccanico – della struttura linguistica, non possono esserlo effettivamente, fino in fondo. E per fortuna. Ovvero: quest’ora assume la forma d’un «concatenamento macchinistico» di attimi: locuzione che Deleuze e Guattari adoperano per dare nome a ciò che nome, apparentemente, non ha: la kafkiana «disorganizzazione attiva dell’espressione»: una «espressività» che rinuncia ad una effettiva «cristallizzazione» e che, dunque, sforma le forme, le spezza, le frantuma – andando a formare e a riformare un sistema di frammentarie e «contraddittorie» ramificazioni: una tana con tante porte, da disserrare o sbarrare.
E tutto ciò viene dominato, però, da un potere fortemente «razionalistico», «superiore» anche al carattere concreto del mezzo linguistico: la suprema e soffocante potenza della «grande idea dell’ordine», per dirla con Roland Barthes. Un elemento «sadiano», che sta determinando le connotazioni linguistiche d’una parte pressoché vasta della drammaturgia contemporanea. Un elemento che, in questo caso, si manifesta attraverso un regolarizzato «compendio» di dati sessuali estremi ed atroci: le depravazioni – che pure vengono affrontate in modo «nichilistico» ed apparentemente «ironico» – vanno a comporre dei momenti «formalizzati» della drammaturgia, dei momenti fortemente «regolati»: la «razionalizzazione» d’impulsi e pulsioni sessuali raccapriccianti avviene perché, parafrasando ancora Pasolini, è la ragione che concede potere al Potere. Quest’estrema regolarizzazione trova forma, dunque, in quel «concatenamento macchinistico» di dati suesposto – e, però, soltanto un Potente può determinare la forma di questa sequenza di depravazioni: l’uomo più crudele del mondo; un industriale, padrone d’una fabbrica d’armi, concede una intervista ad un giovane giornalista. Scopo dell’industriale, però, è quello d’ammazzare il ragazzo, che ha abusato di sua figlia; ed il Potente, dando una forma linguistica a quel febbrile concatenamento d’atroci dati regolarizzati, sprona il ragazzo a confessare – e costui, però, è convinto d’affidare il segreto ad un compagno, ad un «complice» – proprio perché «la crudeltà, amico mio, è un atto d’estrema condivisione». E, invece, lo affida ad un padre tormentato, che l’ammazza.
La febbre espressiva che determina l’esposizione dei dati sessuali sembrerebbe contraddire, sia pure in modo soltanto teorico e non pratico, l’estrema regolazione e formalizzazione della disposizione dei dati. Potrebbe essere vero… ma, per dirla ancora con Pasolini, le contraddizioni sono assolutamente necessarie… anche, e soprattutto, se assumono funzioni strutturali. E le «contraddizioni strutturali» sono «contraddizioni apparenti». Un’altra «contraddizione strutturale», infatti, risiede nell’estremo contrasto tra l’ «apertura» e la «fluidità» della scrittura drammaturgica, che allontana da sé ogni possibilità o tentativo di fissità e cristallizzazione in forme definitive o precostituite o tradizionaliste, e l’asfissiante «chiusura» dello spazio scenico. Se, come sopraccennato, la scrittura assume la forma irregolare d’una tana kafkiana con tante porte da sbarrare o disserrare, con tante strade «narrative» che vengono nevroticamente percorse e, poco dopo, abbandonate… la scena, progettata da Luigi Sacco, non può non essere che, appunto, una tana, una grotta: un ufficio, soffusamente illuminato da Andrea Pistoia, con delle rozze pareti, due sedie, una scrivania e tre libri: ritratto perfetto d’un uomo vittima d’una profonda e patologica alienazione.
La regia – curata dal drammaturgo medesimo e dall’aiuto regista Claudia Grassi – assume un’autonomia narrativa: va a comporre «un «sistema di segni», la cui potenza comunicativa s’affianca alla struttura del testo. Una frase, una sedia ed un’azione possono acquisire, tutto sommato, la medesima potenza espressiva.La regia, dunque, assume una potenza linguistica totalizzante: un gesto, un movimento, uno scatto d’ira, una risata nevrotica ed amara, un momento d’estrema sospensione – come l’espressionistico smarrimento o disorientamento degli attori tormentati… tutto questo va a comporre, dunque, un linguaggio gestuale e scenico fortemente struggente, degno d’una tragedia. Un linguaggio che potremmo definire veristico – privato, dunque, d’ogni manierismo accademico. Non mancano momenti d’apparente leggerezza o allegrezza, come la danza – escamotage perfetto che interrompe la fluidità dell’azione, per catapultare lo spettatore in un momento di poetica sospensione: sulla folcloristica e spigliata musica del Sirtaki – traendo ispirazione da una famosa scena filmica, quella di Zorba il greco –, i due personaggi confessano le loro bestiali pulsioni. Nei panni dell’industriale Paolo Veres, Lino Guanciale: superbo attore-cantante: attore che canta, cioè. Adopera la voce come strumento, non soltanto nelle varie variazioni d’intonazione fortemente veriste… ma, finanche la pausa conserva una sua affannosa potenza «espressiva», che s’innesta e s’integra perfettamente nella totalità del linguaggio drammatico, assumendo la tagliente gravezza d’una parola. Agitato e nervoso, padre tormentato con atteggiamento superbamente nichilistico, adopera agilmente le parole, con febbrile naturalezza. Parimenti ottimo anche Francesco Montanari, nei panni del giornalista. Dà corpo ad una voce drammaticamente scintillante, vivace in certi passaggi nervosamente concitati; al virtuosismo, quando la scrittura lo richiede, sostituisce un parlare tutto strascicato e sommesso: veristica e concreta allusione al tentativo di repressione che il personaggio cerca d’effettuare nei confronti dei suoi perversi istinti sessuali. Successo di pubblico, tutto attento e sorprendentemente numeroso, che ha accolto con entusiasmo questa perla della drammaturgia contemporanea.