Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2022-2023
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Soprano Carmela Remigio
Mezzosoprano Marina Comparato
Tenore Maxim Mironov
Basso Gianluca Buratto
Wolfgang Amadeus Mozart: “Ave verum corpus”, mottetto per orchestra in re maggiore KV 618; Gioachino Rossini: “Stabat Mater” per soli, coro a quattro voci miste e orchestra
Venezia, 7 aprile 2023
È tornato alla Fenice Myung-Whun Chung, per dirigere due capolavori del repertorio sacro – l’“Ave Verum” di Mozart e lo Stabat Mater di Rossini – dopo avervi inaugurato, alla fine del 2022, sia la nuova Stagione Operistica che quella Sinfonica. Da tempo ospite abituale, già nel 2016 il maestro coreano aveva proposto nel teatro veneziano, sempre in prossimità della Pasqua, la sua lettura della partitura sacra di Rossini, basata su una Sequenza, attribuita a Jacopone da Todi – tra i “soli” erano, anche in quell’occasione Carmela Remigio e Marina Comparato. Scritto nel giugno del 1791, l’“Ave verum”, ultimo lavoro sacro portato a termine da Mozart, fu dedicato dall’autore a Anton Stoll, direttore del coro parrocchiale di Baden, in segno di gratitudine per l’aiuto offerto dal Landschulmeister alla moglie Constanze, mentre soggiornava nella nota località termale, in attesa del sesto figlio. Completato il 17 giugno, il mottetto per orchestra fu eseguito da Stoll per la festività del Corpus Domini. La complessiva semplicità del pezzo – destinato ad esecutori non professionisti –, insieme alla scorrevolezza della polifonia, fa dell’“Ave verum” un gioiello musicale di seducente spiritualità. Soffuso di mestizia dolce e toccante, esso è percorso dallo stesso afflato poetico, essenziale e purissimo, che caratterizza le ultime composizioni strumentali mozartiane, nonché le parti compiute del Requiem, espressione piena, enigmatica e sublime della religiosità del Salisburghese. Magica veramente è risultata l’esecuzione guidata, con profonda sensibilità e attenzione ad ogni sfumatura, dal maestro coreano, sorretto da un insieme di strumentisti dalla delicata ma pregnante sensibilità e da una compagine corale, che ha saputo rendere con soave fervore, nel suo canto di ineccepibile eleganza, la scrittura trasparente e lineare di questa breve ma sublime pagina.
Quanto al titolo rossiniano, fu proprio la richiesta di comporre uno Stabat Mater, giuntagli dal potente arcidiacono di Madrid, don Manuel Fernández Varela – conosciuto da Rossini nella capitale spagnola, nel 1831 – che indusse il Pesarese a rimettersi a comporre, interrompendo il silenzio creativo, iniziato subito dopo il Guillaume Tell (1829). Inizia, così, un nuovo periodo fecondo – durato fino a poco prima della morte dell’autore –, in cui sarebbero nati due capolavori di carattere religioso, come lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle, insieme agli adorabili Péchés de Vieillesse: 150 piccole meraviglie da camera, piene di umorismo e inventiva, composte tra il 1857 e il 1868. Nel 1832, dunque, Rossini si accinge alla composizione dello Stabat Mater, ma il lavoro ebbe un percorso lungo e accidentato tra interruzioni dovute a problemi di salute – la famosa lombaggine – o a motivi di ordine personale – la separazione da Isabella Colbran e il nuovo amore per Olympe Pélissier. Sta di fatto che la versione definitiva, articolata in 10 numeri – interamente di pugno del Pesarese, che ne ripudiò una precedente, cui aveva contribuito anche Giovanni Tadolini – fu completata solo nel 1841 e presentata con grande successo, il 7 gennaio 1842, al Théâtre de la Comédie Italienne a Parigi. Ma non tutti, all’epoca, apprezzarono quest’opera sacra del Pesarese, giudicando la modalità espressiva di certe pagine troppo vicina a quella “profana” del teatro: in primis Wagner, che espresse forti riserve, in generale, sulla drammaturgia rossiniana, anche se, nel luglio del 1860, andò a trovare il compositore italiano nella sua villa di Passy, rendendogli omaggio. Oggi lo Stabat Mater rossiniano viene considerato dai più un capolavoro, che coniuga mirabilmente il melodramma con la musica sacra, la vocalità del Rossini maturo con la tradizione polifonica italiana. Un intreccio di misticismo e teatralità, peraltro già presente nell’icastica sequenza medioevale.
Anche in questa nuova interpretazione dell’opera sacra rossiniana ci sembra che Myung-Whun Chiung abbia inteso esprimere il fervore religioso, che percorre la grande partitura rossiniana, pur nella diversità delle forme espressive. Ne è risultata, anche questa volta, un’esecuzione di grande fascino, nella quale il direttore ha utilizzato una vasta gamma – dinamica e agogica – e dove anche le lunghe pause assumevano una suggestiva valenza drammatica al pari dei contrasti timbrici. Davvero encomiabile è risultata la compagine orchestrale, che ha sfoggiato perfetta intesa e impeccabili attacchi, pur nella dilatazione dei tempi, voluta diffusamente da Chung, ad esaltare la solennità della musica. A loro volta, i Cantanti e il Coro hanno saputo adeguare i propri mezzi vocali al carattere sacro della musica con rigore e compostezza stilistica nelle parti in stile severo come in quelle espressivamente più enfatiche. Il Coro ha esibito una dizione sempre nitida e sonorità di trasparente brillantezza: dall’esplosione di pathos (“Stabat Mater dolorosa”), seguente alla drammatica introduzione, aperta da un cromatico arpeggio di violoncelli e fagotti, al polifonico finale in stile fugato (“Amen. In sempiterna saecula”). Il quartetto vocale ha brillato sia nel suo insieme (“Sancta Mater, istud agas” e “Quando corpus morietur”) sia per quanto riguarda le prestazioni dei singoli cantanti. All’altezza è apparso, nel “Cujus animam”, il tenore Maxim Mironov, che si è prodotto, nella cadenza, in un dignitoso re bemolle. Autorevoli e capaci di un sicuro controllo vocale, il mezzosoprano Marina Comparato e il soprano Carmela Remigio hanno sfoggiato un’interpretazione molto espressiva senza mai perdere di vista le esigenze stilistiche: la prima in “Fac ut portem”, la seconda in “Inflammatus et accensus”; entrambe nel duetto “Qui est homo, qui non fleret”. Incisivo e controllato è risultato l’intervento del basso Gianluca Buratto, che ha intonato, con una voce dal bel timbro scuro, che è arrivata penetrante fino agli orecchi e al cuore, “Pro peccatis suae gentis”. Grande successo per tutti.