Torino, Auditorium RAI “A.Toscanini”, Stagione Sinfonica 2022-23 RAI NuovaMusica.
Orchestra Sinfonica Nazionale RAI
Direttore Robert Trevino
Violoncello Jean-Guihen Queyras
Pianoforte Tamara Stefanovich
György Kurtag (1926): Doppio concerto per pianoforte violoncello e orchestra, op.27 n.2; György Ligeti: Atmosphères per orchestra; Márton Illés (1975): Viz-szìn-tér per orchestra;. Peter Eötvös (1944): Reading Malevich Parte una: Horizontal; Parte due: Vertical (prima esecuzione italiana della versione rivista dall’autore)
Torino 14 aprile 2023.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI celebra il centenario della nascita, Tarnaveni 28 maggio 1923, di György Ligeti con un concerto di musica di autori ungheresi viventi, eccezion fatta per il dedicatario scomparso nel 2006. Si inizia con il Doppio concerto per pianoforte e violoncello, 1990 l’anno di creazione, di György Kurtag, novantasettenne decano dei compositori europei che, dopo anni di annunzi e attese, è finalmente approdato, nel 2018, alla Scala con Fin de Partie, opera di due ore, che ha ottenuto una grande risonanza tra gli specialisti della critica musicale. Il doppio concerto op27 n.2, con il confratello op.27 n.1, pare rimandare all’accoppiata di sonate pianistiche op.27 di Beethoven, di cui la seconda è il celebre Chiaro di luna. Il rimando è, all’ascolto, assolutamente non disvelato e potrebbe anche basarsi sulla sola suggestione del numero d’opus. Come in tutta la produzione di Kurtag, anche qui il colore del suono e la cura dell’inciso la fanno da padrone. Il percorso dell’autore è a suo modo lineare, Bartok, imprescindibile per un ungherese, Parigi, Messiaen, Boulez e il post Webern alla francese. L’Ensemble Inter Contemporain e l’ingegneria architettonico musicale dell’avanguardia del secondo 900 completano il percorso. I due concerti dell’opera 27 sono stati modellati sul pianismo virtuoso del dedicatario, l’ungherese Zoltan Kocsis, che qui all’Auditorium RAI è stato rilevato dalla pianista serba Tamara Stefanovich, specialista dell’autore e del pezzo. Con lei si spartisce il doppio concerto l’altrettanto rinomato violoncello del canadese Jean-Guihen Queyras. Purtroppo, la conosciuta non felicissima acustica della platea della sala e l’altrettanto infelice visuale ci hanno impedito di seguire con attenzione la prova. Nel coacervo di strumentale percussivo, vario e fantasioso, il pianoforte, annegato in un palco completamente invaso, si perdeva alla vista e al suono, fortunatamente non altrettanto quello del violoncello che pur esso non godeva di spazi di espansione lirica. Sempre, in questi concerti, qualsiasi pezzo venga suonato, viene accolto, dal relativamente ampio pubblico, con simpatia ed applausi che premiano giustamente il virtuosismo strumentale dell’OSN RAI. György Ligeti apre la seconda parte del concerto con le ormai “classiche” Atmosphères che Kubrik ha reso celebri nel viaggio finale della sua Odissea nello spazio del 2001. Il colore, la presa, la magia del suono sono quelle di un genio dell’orchestrazione. La musica perde tutta la sua sostanza costruttiva e assume quella intangibile delle nuvole e del vento. A Torino, al Lingotto, Ligeti ci era stato rivelato da Claudio Abbado e dai Berliner con Lontano, nel maggio del 1995. L’interpretazione di Trevino ripete il fascino della prova di Abbado e la vince su quello della colonna sonora del film di Kubrik. La mancanza di immagini e la fissità ossessiva non disegnano un percorso ma una staticità ossessiva che il suono riempie di una inimmaginabile varietà di brividi sonori. La compostezza del direttore accentua il virtuosismo del gesto che, con estrema armonia, disegna un atemporale, erratico ed immaginifico percorso. Nove minuti che, il determinante contributo dell’orchestra e di Trevino, ti fanno dimenticare la Terra e le sue miserie. A differenza di Kurtag e di Ligeti Márton Illés è magiaro autentico, non soffre delle incertezze e delle turbe che caratterizzano, per l’essere transilvani di origini ebraiche, i colleghi che l’hanno preceduto. La sua musica, escludendo il titolo, degno di una sciarada con cui passarci la serata, è di consistenza solida e reale. L’organico orchestrale è sempre abbondantissimo e vario e produce grappoletti di suono che paiono essere governati dall’interno, non dalla magia dell’atmosfera, ma dalla concretezza di un calcolo combinatorio. L’origine geografica che lo allontana dalle fantasiose ed enigmatiche terre dell’Est, dagli incerti confini, di Bartok e l’avvicina al rigore formale del palazzo degli Hesterhazy, scrigno dei capolavori di Haydn, gli consentono di riaccostarsi, seppur con cautela, ad un linguaggio che cerca uno sbocco di più solida comprensione. Il pezzo è del 2019, conta pochissime esecuzioni, almeno in Italia, spetterà quindi al pubblico e al tempo dargli una giusta collocazione nel panorama generale della produzione musicale contemporanea. All’auditorium, l’altra sera, si è preso un successo “di stima”, come si suole dire, in questi casi, per non sbilanciarsi troppo. Si termina con Peter Eötvös, manco a dirlo transilvano pure lui. La fantasia evidentemente non gli manca, ma assai temperata dall’essere soprattutto un grande direttore d’orchestra. Professione che lo obbliga a fare i conti con la realtà, con la praticità e con le persone. Il titolo “Leggendo Malevich” lo lega al fatto concreto di un dipinto astratto del pittore russo “suprematismo 56”, del 1916. Il quadro è popolato, lungo la diagonale, di bastoncini e rettangoli monocromatici, dalle problematiche concatenazioni, posti su un pervasivo sfondo biancastro. La composizione musicale è bipartita, offre quindi una lettura del dipinto bidimensionale che le due parti Horizontal e Vertical esemplficano. Potremmo inutilmente perderci nel decriptare, descrivere e correlare musica e quadro. Potremmo affermare molto e altrettanto, a ragione, potrebbe venire contestato e contraddetto. Già è criptico il “suprematismo” di Malevich, altrettanto, e come potrebbe essere altrimenti, per scelta o per caso, la musica di Eötvös. L’ascolto di una ventina di minuti è piacevole e gli effetti timbrici, per le decine di strumenti strani e variegati presenti, hanno un effetto fascinoso. Gli applausi (come sopra) non mancano. Non sono comunque di maniera le lodi che si sono meritati l’Orchestra tutta e i singoli esecutori. Tanti di essi, percussioni, legni e ottoni si sono dovuti destreggiare con un gran numero di cambi di strumento, tutti realizzati con ineccepibile professionalità. Robert Trevino dimostra sempre più, ad ogni concerto, sagacia, versatilità e professionalità inusitate. Ci pare poi colga, con determinazione assoluta e personale, lo spirito di ogni singolo pezzo eseguito, componendone, in ogni serata, una sintesi credibile.