Napoli, Teatro Bellini: “Pieces of a Woman”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2022/23
PIECES OF A WOMAN”
Opera teatrale di Kata Wéber
Lars DOBROMIR DYMECKi
Ostetrica MONIKA FRAJCZYK
Mamma MAGDALENA KUTA
Wojtek SEBASTIAN PAWLAK
Zuzanna MARTA ŚCISŁOWICZ
Maja JUSTYNA WASILEWSKA
Marika AGNIESZKA ŻULEWSKA
Regia Kornél Mundruczó
Scenografia, Costumi Monika Pormale
Musica Asher Goldschmidt
Direttore Luci Paulina Góral
Telecamera Łukasz Jara
Telecamera sul palco Łukasz Winkowski
Produzione TR Warszawa in collaborazione con Magyar Kulturális Intézet Varsó
Napoli, 30 marzo 2023
Torna, al Bellini, Kata Wéber con un suo dramma, ed accade in un modo profondamente «utopistico»: il suo è un teatro puramente estetico – benché, però, nasca da una operazione di «follia» regolamentata, stabilizzata così razionalisticamente da apparire, poi, fatalmente inapprendibile. Una formalizzazione severa d’informazioni e dati realistici è il sistema entro cui – sia pure in modo astratto e poetico – la triade teatro-cinema-realtà trova «una via di fuga». Ovvero: Wéber e Kornél Mundruczó, regista, effettuano una trasposizione di dati realistici sulla carta e sulla scena, mirando ad un «utopistico» recupero della totalità del reale, per dirla con Moravia: informazioni linguistiche sottratte ad un registro fatalmente ed innocentemente colloquiale. Se, però, l’operazione può apparire come una operazione vagamente «iper-realistica» (come se una macchina da presa o un registratore avessero cristallizzato e formalizzato conversazioni che possono accadere nella cucina d’una famiglia di piccoli borghesi), dall’altro lato, ciò ha reso questo dramma non un’opera di teatro, ma un «documentario» su un’opera di teatro o su una faccenda famigliare: il taglio «televisivo», documentaristico, da serie tivù, è fortemente evidente. Questo potrebbe essere stato motivo di scandalo, almeno per quei pochi spettatori che, dopo venti minuti o mezz’ora dall’inizio della rappresentazione, hanno abbandonato una sala poco affollata.
Ciò ci pone dinanzi a vari interrogativi: cos’è e cosa può e deve essere, oggi, il teatro che attribuisce a sé una funzione sociale? È necessaria una definitiva, sia pure soltanto teorica, emancipazione del teatro «sociale» da una ingiustificata demonizzazione dell’astrattismo dell’irrealistico mondo del teatro d’avanguardia? L’apparizione convenzionalizzata, a teatro, di fatti sostanzialmente «realistici» impedisce allo spettatore d’assumere un atteggiamento anti-razionalistico, per dirla con Adorno, che il teatro, volente o nolente, esige, poiché fenomeno inverosimile di per sé nella sua fittizia verosimiglianza? Un taglio documentaristico, cinematografico o, meglio, «televisivo», d’un’opera di teatro può produrre una regressione della parola a «chiacchiera» che soffoca ed annienta l’invenzione della verosimiglianza? Potremmo, anche aprioristicamente, rispondere a queste domande con dei razionali «sì»… ma, facendo proprio appello alla ragione, saremmo ingiusti nell’estendere quei «sì» anche a Pieces of a Woman, che presenta vari elementi strutturali che hanno sbugiardato – sia pure parzialmente – quelle considerazioni che, sopra, ponevamo in forma di domande.
La trama è semplice, nella sua enorme drammaticità: una donna, trentenne, partorisce una bimba che, dopo poco, viene a mancare; a ciò s’aggiunge una conseguente frantumazione della sua famiglia e, in generale, l’antica crisi della soffocante istituzione della famiglia; famiglia che non osserva la donna come «altro da sé», ma come membro nevroticamente ribelle. Si tratta d’un fatto verosimile, dunque, la cui natura formalmente iper-realistica appare come soffocata, sia pure non costantemente, da un suo carattere «narcisistico»: si chiacchiera del più e del meno, del quotidiano, dell’anatra all’arancia e del cactus portafortuna… tranne pochi incisi d’irreale follia o sospensione che interrompono, espressionisticamente e con estrema ispirazione, la meccanicità di quel continuum realistico di non-fatti: la danza, come momento d’estrema leggerezza; ed un momento di degradante nevrosi: la donna, come presa da una febbre o da un morbo della ragione, vede ormai ciò che non c’è: un macabro e tetro «simulacro» di neonato che gattona singhiozzando disperatamente: escamotage che spezza questo vasto «compendio» d’informazioni, dati e conversazioni in lingua polacca dalla poetica musicalità. Parole quotidiane, parole-a-vuoto o, meglio, AL vuoto… quello interiore. E ciò accade attraverso una recitazione che prevede un parlare tutto sommesso, strascicato sopra le atmosfere sonore composte da Asher Goldschmidt; un linguaggio estremamente «realistico», se vogliamo, o domestico. Ciò ha obbligato gli attori a fare uso d’una strumentazione fonica: l’amplificazione sonora ha come pregio la conservazione del carattere originario d’una voce non impostata – cosa che, invece, in questo caso, avrebbe compromesso la verosimiglianza o, meglio, l’ «iper-verosimiglianza» formale e sostanziale del dramma. Gesti e movimenti, vaghi ed astratti, s’affiancano a questo parlare tutto sussurrato e biascicato – composto, poi, da pochi momenti d’estrema euforia o follia. Gesti poco certi e informi, che vanno a comporre un sistema di azioni parlanti, linguistiche, in netta e determinante contraddizione con l’ «iper-verosimiglianza», seppur poco «espressiva», della lingua parlata. Ciò accade perché la degradazione che determina la frantumazione famigliare non consente ai membri della famiglia una effettiva e realistica esteriorizzazione gestuale di quel groviglio interiore d’emozioni e frustrazioni. La «vera» lingua è, come sempre, quella gestuale: concreta fotografia d’un disagio emotivo che la divagatoria lingua parlata cerca, inconsciamente, di camuffare. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, negli appropriati costumi di Monika Pormale: Dobromir Dymecki (Lars), Monika Frajczyk (Ostetrica), Magdalena Kuta (Mamma), Sebastian Pawlak (Wojtek), Marta Ścisłowicz (Zuzanna), Justyna Wasilewska (Maja), Agnieszka Żulewska (Marika). Altro pregio della rappresentazione è la creazione d’un ibridismo linguistico d’immagini sceniche e cinematografiche: una operazione di armonizzazione ritmica e formale tra due linguaggi estremamente eterogenei, avvenuta attraverso un momento, quello iniziale, di giustapposizione d’immagini ostentatamente cinematografiche o, meglio, «televisive» – fatte al momento, e proiettate sopra la parete scenica –, ed immagini teatrali. La potenza sintattica e comunicativa del materiale cinematografico (prodotto da Łukasz Jara e Łukasz Winkowski) s’esplica attraverso fulminei e nevrotici movimenti della cinepresa –vagamente «neorealistici», nel senso ampio del termine.Realismo che determina anche, e soprattutto, la scenografia, progettata anch’essa da Monika Pormale: la sezione trasversale d’un appartamento estremamente modesto – nitidamente illuminato da Paulina Góral –, contrassegnato da un’adorazione, un’attenzione per il dettaglio… per la tazzina e le scodelle scintillanti, ad esempio, per le piastrelle consumate: anche qui, dunque, l’utopistica operazione di ricostruzione d’una iper-verosimile quotidianità. Realismo che ha sortito la meraviglia d’un pubblico che, dinanzi alla complessità del dramma, ha manifestato, però, una certa perplessità. Foto Natalia Kabanow