Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2022/23
“I DUE FOSCARI”
Tragedia lirica in tre atti di Francesco Maria Piave, dall’omonima tragedia di George Gordon Noel Byron
Musica di Giuseppe Verdi
Francesco Foscari FRANCO VASSALLO
Jacopo Foscari FABIO SARTORI
Lucrezia Contarini ANGELA MEADE
Jacopo Loredano ANTONIO DI MATTEO
Barbarigo SAVERIO FIORE
Pisana MARTA CALCATERRA
Fante ALBERTO ANGELERI
Servo del Doge FILIPPO BALESTRA
Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice Genova
Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia e Scene Alvis Hermanis
Costumi Kristìne Jurjàne
Coreografie Alla Sigalova
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 02 aprile 2023
Spesso associamo Verdi alla sola trilogia popolare (“Trovatore”, ”Rigoletto”, ”Traviata”), o a opere molto magniloquenti (“Nabucco”, “Aida”). In realtà la precipuità del Verdi migliore è la sua malinconia (dal greco: “umore nero”), che si esplicita nel cupo dei sentimenti maligni di avidità, invidia, complotto, vendetta, combinati con l’acquarellato del rapporto col sé, degli affetti familiari, del diafano eros incompiuto. Un mélange modernissimo e affatto distante da quell’immagine postromantico-risorgimentale che spesso si affibbia al cigno di Busseto. Alcune opere degli “anni di galera” (1843-500) iniziano a presentare questo tratto caratteristico, e specialmente quelle che Verdi e Piave ricavano, in quel periodo, da Schiller e Byron, ossia altri due giganti della malinconia, del tormento interiore e della tragedia; “I due Foscari” (assieme a “I masnadieri”, “Il Corsaro” e “Luisa Miller”) è considerabile uno dei punti più alti di questa visione drammatica: l’intrigo politico alle spalle del Doge Francesco Foscari trascolora immediatamente in un dramma familiare sull’impossibile conciliazione tra il ruolo di padre e di uomo di Stato, lasciando emergere l’inedito, per quei tempi, iato tra educazione familiare ed etica, esacerbato dall’ambientazione in una città dissoluta e “leggera” come la Venezia rinascimentale. Il Doge è fin dal primo momento il capro espiatorio di tutta questa irregolarità ufficializzata, e a poco serve contrapporgli il machiavellico Loredano, il servile Barbarigo, persino l’eroico (e per questo sprovveduto) figlio Jacopo: l’unico personaggio col quale “risuona” è la nuora Lucrezia Contarini, paradossale nella sua casta abnegazione (il modello è quello della vergine integerrima, più che della madre pasionaria) quanto Francesco nella sua onestà di uomo di Stato. E infatti anche musicalmente i due ruoli si corrispondono: Verdi costruisce una coppia baritono-soprano degna del futuro “Rigoletto”, priva di quel bruciante grottesco, qui sublimato in un dolore assoluto e ideale, meno originale sebbene di pari intensità. Alvis Hermanis ha colto in pieno questa stimmung, costruendo una scena pulitissima, tutta sui toni anticati del sabbia, del seppia, dei grigiazzurri, ove pochi oggetti di scena sono protagonisti (delle statue di leoni veneziani, dei sedili, un letto a baldacchino) e delle proiezioni discrete di vedute cittadine, o di dettagli d’opere d’arte, incastonano la scena senza possibilità di fraintendimento (curate da Ineta Sipunova). La regia (come anche i bei costumi di Kristìne Jurjàne), invece, cavalca il linguaggio delle oscure passioni distruttive, riproponendo l’endiadi di cui sopra: il risultato è sia formalmente elegantissimo, forse un po’ algido, sia scenicamente coinvolgente, con chiaro picco emotivo nell’atto terzo (e così non poteva che essere). Anche la selezione del cast, peraltro, sembra andata in questa direzione: Franco Vassallo ha probabilmente trovato il secondo personaggio di svolta (dopo Amonasro nell’”Aida”) della sua sfavillante carriera: Francesco Foscari sembra provenire da un luogo remoto del suo io, con un’aderenza al personaggio tale da sorpassare anche il concetto di credibilità. La voce, manco a dirlo, segue perfettamente questa interiorizzazione: piena, scura, proiettatissima, il colore è smaltato e gli armonici venano di struggimento la granitica tecnica – che si esplicita in un fraseggio magistrale lungo tutta la tessitura. Ora manca un solo tassello al baritono milanese, Simon Boccanegra: se queste sono le premesse sarà davvero il coronamento del suo percorso. Accanto a lui un soprano che già altre volte abbiamo molto lodato: Angela Meade, che, a questo giro, non ci ubriaca di acuti svettanti e mirabili mezzevoci, fornendo una prova di grande misura, focalizzandosi sul fraseggio, sulla significazione della parola; una prova di grande maturità, segno sia dello spassionato affetto che la Meade nutre per la nostra lingua, sia del costante percorso di perfezionamento intrapreso dal soprano americano. La sua Lucrezia forse è meno personale di altri ruoli da lei sostenuti, ma d’altro canto mostra un temperamento più umano, sofferto, nella gestualità e nella presenza scenica ancorché nel sapiente uso del fantastico mezzo vocale che possiede. Accanto a questi due interpreti, Fabio Sartori certo non sfigura, ma le imperfezioni di un’interpretazione sopra le righe appaiono più definite: la potenza vocale e il vulcanico istrionismo, di cui il tenore è dotato, questa volta sembrano impedirgli un effettivo approfondimento del ruolo, sia scenicamente che vocalmente – non avremmo mai creduto di dirlo, ma oggi Sartori suona meno verdiano, nel porgere e nel temperamento, di un tempo: troppo verismo e Puccini? Chissà. In ogni caso si parla di dettagli di un’interpretazione che il pubblico ha mostrato di gradire molto. Il Loredano di Antonio Di Matteo si è saputo mettere in luce per i gravi voluminosi e il colore consistente, ma offre una certa bidimensionalità scenica. Nell’alveo della correttezza le prove di Saverio Fiore (Barbarigo), Marta Calcaterra (Pisana), Alberto Angeleri (Fante) e Filippo Balestra (Servo del Doge). Curata ed opulenta la performance del Coro, diretto dal Maestro Claudio Marino Moretti, certamente impreziosita dalle maliose interpretazioni dei danzatori di Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS, oculatamente coreografati da Alla Sigalova, durante la celebre barcarola del Terzo Atto, ma usati come servi di scena anche durante tutto lo spettacolo, in maniera intelligente e non macchiettististica. Infine, la direzione del maestro Renato Palumbo, molto applaudita, ha saputo rendere giustizia più all’anima nera che a quella tormentata dell’opera; l’unità tra buca e scena è stata comunque perfetta, sia con i solisti che col coro, sebbene il gesto un po’ esagerato. La sala del Carlo Felice era gremita e ha riservato vere scene di delirio di massa sugli applausi – tra cui due minuti abbondanti consecutivi dedicati a Vassallo, dopo “All’infelice veglio”, con tanto di bis chiamato a gran voce, ma non concesso. Siamo certi che ci sarà una prossima occasione per ascoltarlo.